- Nell’Italia del sud la concorrenza, quando si parla di pizza, è spietata. Prendiamo Napoli e, più in generale, la Campania, dove la tradizione sulla pizza non ha certo bisogno di spiegazioni.
- “Parigina” non è altro che la fusione (o agglutinazione, come si dice in linguistica) dell’espressione napoletana “p’ ‘a riggina”, cioè “per la regina”.
- Oggi di solito la si trova con una base di pasta per la pizza, poi c’è la farcia (pomodoro, mozzarella o provola, e prosciutto cotto è la versione classica), e infine uno strato di pasta sfoglia per dare fragranza.
Nell’Italia del sud la concorrenza, quando si parla di pizza, è spietata. Prendiamo Napoli e, più in generale, la Campania, dove la tradizione sulla pizza non ha certo bisogno di spiegazioni.
Eppure, andando a sbirciare tra le vetrine di bar e rosticcerie, si scopre un altro tipo di pizza, anzi di pizzetta, che ha una storia decisamente lunga e tira in ballo addirittura i reali, ma di cui si sa davvero poco fuori dai confini regionali.
La pizza parigina, come ha spiegato lo scrittore ed esperto di Napoli Roberto Bracale, nasce come merenda di Maria Carolina d’Asburgo-Lorena che alla fine del Settecento chiama alla reggia partenopea uno stuolo di cuochi francesi.
Tra questi, un allievo del famoso Marie Antoine Carême Arfäně, codificatore dell’haute cuisine (alta cucina), da cui arriva l’idea di rinnovare la merenda della sovrana inserendo proprio la pasta sfoglia elaborata dal suo maestro (e realizzata con farina, acqua e burro) per coprire lo strato superiore di pasta di pane, che a sua volta avvolgeva una ricca farcia.
A questo punto, una domanda viene spontanea: perché si chiama pizza parigina se nasce a Napoli? Come sempre, la lingua ci regala aneddoti e storie. L’attuale grafia, infatti, lascia intendere che abbia un qualche riferimento con la capitale francese. Niente di più sbagliato.
“Parigina” non è altro che la fusione (o agglutinazione, come si dice in linguistica) dell’espressione napoletana “p’ ‘a riggina”, cioè “per la regina”, per indicare che quella ricetta era stata elaborata appositamente per Maria Carolina d’Asburgo.
Fin dalla colazione
Oggi di solito la si trova con una base di pasta per la pizza, poi c’è la farcia (pomodoro, mozzarella o provola, e prosciutto cotto è la versione classica), e infine uno strato di pasta sfoglia per dare fragranza. Si vende in tutti i bar, forni o rosticcerie: fa da colazione salata sì, ma anche da spuntino delle 11, o da pranzo veloce, o da merenda, o da qualunque altro pasto si voglia.
È versatile, come tutte le cose golose, ma non sempre se ne trovano di qualità: gli stessi napoletani confessano che a volte si lesina un po’ sulla materia prima. Eppure la parigina resiste, sfidando pizze fritte e tonde, e di buone in giro certo che se ne trovano, come quelle di Ambrosino, storico forno e gastronomia al Vomero, o di Mandara, dove la fila all’ora di pranzo è garantita.
Ma da oltre 200 anni non varca i confini della regione, e un motivo preciso non c’è. Un’altra pizza che diventa abitudine, nel senso buono del termine, e che non vuole lasciare il luogo in cui è nata.
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