Le Cdc rappresentano il modello dell’assistenza di prossimità. Un punto di riferimento per i territori. I due miliardi del Pnrr destinati ai presidi sono stati suddivisi. Ma il processo è tutt’altro che virtuoso
I due miliardi di fondi del Pnrr destinati ai presidi delle Case della comunità (Cdc), al momento, sono stati suddivisi per la penisola con cantieri in ritardo, mancanza di trasparenza e fallaci piani di sanità pubblica integrata.
Le Cdc sono, su carta, strutture sociosanitarie che fungono da punto di riferimento per la cittadinanza e rappresentano il modello organizzativo dell’assistenza di prossimità. La sanità governata dalla Lega, in Lombardia e Veneto, continua a inaugurarle, ma i contesti regionali parlano di una situazione ancora incerta e molto disomogenea.
La consigliera regionale Elena Ostanel, del movimento civico “Il Veneto che vogliamo”, ha presentato un’interrogazione alla giunta regionale, per avere il dato aggiornato relativo a quante Cdc siano previste nei territori e per sapere che tipologia di personale sanitario sia previsto al loro interno.
Lo chiede perché, al momento, non ci sono comunicazioni ufficiali in merito, nemmeno al Consiglio regionale. La delibera di giunta dell’anno scorso indica che in Veneto dovrebbero nascere 99 case di comunità, ma per Ostanel la più grande criticità è la disposizione territoriale, «ci sono aree come quella delle Dolomiti, Pedemontana, Berica e Polesana, che non raggiungono i livelli minimi di accesso territoriale delle popolazioni alle cure dentro le Cdc: una distribuzione che è stata fatta senza ascoltare i territori più fragili».
Il secondo punto è la grande questione del personale sanitario da inserire nelle Cdc: «Gli ultimi dati rilevati dalla Cgil parlano di 784 zone scoperte da medici di base in Veneto. Guardando i dati siamo quartultimi in Italia per la copertura della medicina di base».
Il Veneto, inoltre, sta aumentando la spesa che i cittadini devono sostenere nella sanità privata: «Il dato che possiedo parla del 6 per cento di nuclei familiari veneti che sta spendendo il 20 per cento del proprio reddito per curarsi. Le case di comunità, che dovevano far sì che i presidi sanitari e la sanità pubblica fosse più vicina ai cittadini, da un lato non lo sono e dall’altro non avendo il personale sanitario, il grande rischio è che rimangano dei contenitori che non cambiano la situazione esistente».
Tutti i soldi che potevano servire a implementare la sanità pubblica, inoltre, sono stati spostati sul farraginoso progetto dell’autostrada Pedemontana, che al momento è in costante perdita. Come ricorda Ostanel «con questo contratto rischiamo di perdere circa 8 milioni di euro l’anno di debito perché non stanno entrando abbastanza auto per pagare i pedaggi, inoltre necessita di iniezioni costanti di denaro dalle casse della regione per alimentarlo».
La Pedemontana è costata 2,2 miliardi di euro, di cui circa 1,3 investiti da imprese private, 615 milioni messi dallo stato e 300 milioni dalla regione Veneto. C’è poi il tema della scarsa trasparenza, anche in Consiglio regionale: «È gestito tutto in maniera centralista da Azienda zero (società partecipata dalla regione Veneto ndr), il ruolo di monitoraggio da parte dei consiglieri è molto complicato. Molto poco passa in Consiglio, è Azienda zero che decide e le nomine dei vertici sono del presidente della giunta».
Per quanto riguarda le iniezioni di denaro pubblico ai privati convenzionati, per Ostanel è un tema opaco «per i finanziamenti che vediamo transitare tramite la commissione, c’è una grande fatica per controllare quanto vada a soggetti privati, data la centralizzazione di Azienda zero».
I dati mancanti
In Lombardia l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri è a capo di uno studio di valutazione dei modelli organizzativi delle Cdc, per verificare quale sia la situazione delle strutture che si stanno aprendo, rendendo poi pubblici i dati. Alla vigilia dell’uscita del prossimo rapporto, il dottor Angelo Barbato, psichiatra ed epidemiologo dell’istituto Mario Negri, dichiara che «in Lombardia ci risulta siano state aperte 132 Cdc, altre invece possono essere considerate aperte solo perché è stata trovata loro la sede, ma non sono materialmente in funzione e non esiste un elenco ufficiale della regione di quelle aperte».
I ricercatori hanno iniziato le visite in 119 Cdc, raccogliendo i dati completi su 99 unità «ma dobbiamo aggiornare questi dati continuamente, perché aprono con dei servizi e dopo qualche mese, i servizi cambiano».
Le Cdc stanno nascendo aggregando e riorganizzando servizi e strutture già esistenti, che hanno subito processi di ristrutturazione. Inoltre, spiega Barbato, è «difficile verificare», per quanto concerne il personale sanitario al loro interno, se ci siano state nuove assunzioni o solo una riorganizzazione dell’organico già presente: «Non ci sono informazioni ufficiali e aggiornate».
Sussiste una mancanza totale di trasparenza, e i ricercatori del Mario Negri stanno supplendo a quello che dovrebbe essere «un compito istituzionale, ovvero il controllo e l’aggiornamento di questo processo, che non viene fatto o viene fatto in maniera molto episodica. Siamo un istituto di ricerca indipendente che sta facendo il monitoraggio di un processo che dovrebbe essere oggetto di attenzione pubblica».
Bandi a soggetti privati
La situazione che hanno trovato è stata assai disomogenea, come spiega a Barbato: «Sono state messe insieme utilizzando servizi già esistenti, o riconvertendo il personale già esistente» e la cosa più rilevante che manca, è l’inclusione nelle Cdc dei medici di medicina generale che dovrebbero essere l’asse portante delle cure primarie, mentre l’unica vera novità riscontrata riguarda la presenza attiva di infermiere e infermieri di comunità, che al momento costituiscono l’asse portante di questi presidi.
«Ci sono alcune Cdc dove sono presenti in maniera ampia medici di medicina generale, ma ce ne sono molte in cui si nota la totale assenza di queste figure». Per quanto concerne il ruolo dei privati, per Barbato «ci sono le organizzazioni del territorio del terzo settore, come le cooperative. Ci sono delle Cdc dove i servizi medici sono assicurati da medici di medicina generale, convenzionati con il Ssn, che hanno formato una cooperativa. Ci sono poi servizi che la regione ha da sempre affidato a privati, per esempio l’assistenza domiciliare integrata, che preesisteva alle Cdc: in Lombardia è stata sempre affidata a soggetti privati».
La regione Lombardia ha emesso delle delibere in cui ha deciso di dare la possibilità di aprire dei bandi a soggetti privati che si vogliono candidare a gestire le Cdc, ancora non aperte, mentre «sono sicuramente già in atto per la gestione degli ospedali di comunità» e, prosegue Barbato, «noi continuiamo a investigare in un settore in cui non c’è nessuna trasparenza».
Alcune aziende socio sanitarie territoriali (Asst) hanno chiesto a cooperative esterne di farsi avanti. «Lo verificheremo con molta attenzione» conferma Barbato, «ci muoviamo su un terreno che è in continua evoluzione».
Questo dato lo spiega anche Vittorio Agnoletto, medico di “Medicina democratica”: «La legge lombarda sulla sanità Moratti-Fontana ha inserito nell’articolo due “l’equivalenza tra pubblico e privato convenzionato all’interno del servizio sanitario nazionale” e questo, a nostro parere, è in contrasto con il testo con cui è stato istituito il Ssn e con la costituzione.
Dentro la legge regionale è prevista anche la possibilità che le Cdc vengano gestite da strutture private. Questo significa che il cittadino viene in contatto con il medico delle Cdc che indossa il camice del Ssn ma che dipende da una struttura privata: si aprirebbero questioni complicate come il conflitto di interessi».
Il dato che raccontano Veneto e Lombardia, pur con le loro peculiarità, è che nessuna casa di comunità, al momento, possiede gli standard che sono stati previsti dalle normative che hanno messo in moto questo processo attraverso l’acquisizione dei fondi europei.
Per Barbato «nessuna ce l’ha, alcune si avvicinano, ma sono poche» ed è molto limitato il ruolo attivo dei servizi sociali gestiti dai comuni, che dovrebbero integrarsi con i servizi delle case di comunità. La scure della privatizzazione della medicina territoriale, dunque, aleggia nei territori, che si trasformano in un banco di prova in cui la cura di prossimità è solo un lontano orizzonte.
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