Gli aggettivi che scegliamo di usare fanno la spia. Chi domina l’assoluto è sempre clamoroso, meraviglioso, spettacolare. Ha fatto l’impresa, scritto la storia. A Chicago Ruth Chepngetich è diventata la prima donna di sempre a correre la maratona in meno di 2 ore e 10 minuti, abbassando il record del mondo di quasi 2 minuti. Per la prima volta nella storia lo scarto tra il record del mondo maschile (2h00’35”) e quello femminile (2h9’57”) è sotto i 10 minuti.

Domenica soltanto dieci uomini hanno fatto un tempo migliore di quello di Chepngetich. Un exploit non dissimile da quello di Florence Griffith, quando a Indianapolis nel 1988 corse i 100 piani in 10”49, abbassando il precedente primato del mondo di 27 centesimi di secondo: 36 anni dopo, nessuna ha ancora battuto quel record.

Tadej Pogačar vince Giro d’Italia, Tour de France, due classiche Monumento e il Mondiale nella stessa stagione, arrivando per lo più da solo, a immagine e somiglianza della distanza che c’è tra lui e il resto del gruppo.

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Esauriti i paragoni con i grandi del passato, da Coppi a Merckx, elencati tutti i record frantumati, rimane lo stupore. Quasi senza accorgercene, le parole si squarciano e noi scivoliamo dentro a nuovi sguardi: incredibile (letteralmente: da non credere), ineluttabile, addirittura stupefacente. Nelle parole che adoperiamo per dirlo si sta insinuando un dubbio?

Il percorso del ciclismo

Certo, lo sport di frontiera è sempre il ciclismo: appena uno stravince, c’è un altro che alza il sopracciglio. Mah. Boh. Eh. Bisogna capirlo: il ciclismo ha pagato un prezzo altissimo. Nell’albo d’oro della corsa più importante del mondo – il Tour de France – c’è un vuoto di sette anni, gli anni di quel baro di Lance Armstrong, come se non fossero mai esistiti. Si passa dal successo di Marco Pantani nel 1998 al nome di Oscar Pereiro Sio nel 2006. Che poi il Tour di quell’anno fu una specie di catastrofe: prima del via da Strasburgo furono cacciati alcuni corridori (tra cui Ivan Basso, Jan Ullrich e Alexandre Vinokourov) coinvolti nell’Operación Puerto, una vasta indagine sul doping partita dalla Spagna.

Sulla strada la corsa l’aveva vinta Floyd Landis, un americano che aveva un problema all’anca e faceva fatica anche a camminare: dopo il podio sugli Champs-Élysées fu trovato positivo al testosterone e squalificato. Un anno dopo scrisse un libro – La vera storia di come ho vinto il Tour de France – per professare la sua innocenza.

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Tre anni più tardi invece raccontò la storia proprio quella vera: si dopava, sì, era stato Lance Armstrong a spiegargli come usare l’Epo sintetica, gli steroidi e le trasfusioni e soprattutto come sfuggire ai controlli. Fu l’inizio della fine per il texano, che si vide revocare le sette vittorie consecutive. Dunque quel Tour lo vinse Pereiro Sio. Oddio, lo vinse: pochi mesi più tardi nelle sue analisi fu trovato il salbutamolo, però lui aveva un certificato che diceva che soffriva di asma, e dunque il Tour glielo lasciarono.

Capite bene che il ciclismo ne ha dovuta fare di strada per essere di nuovo credibile. Da lì in poi tutti i corridori in maglia gialla hanno dovuto attraversare il dubbio e venirne fuori, in un modo o nell’altro. Provate a immaginare quali sospetti pesino su Pogačar, che quest’anno ha vinto tutto, abituandoci a uscire dal gruppo a 80, addirittura 100 chilometri dal traguardo. Su diecimila km di corsa in questo 2024, duemila li ha fatti da solo. In testa, ovviamente. Incredibile, certo. Questo vuol dire che non gli crediamo?

Le camere ipobariche e le scarpe magiche

Interrogato in proposito, il direttore del Tour Christian Prudhomme non ha messo la mano sul fuoco per il vincitore dell’ultima edizione. «Le prestazioni di Pogačar sono piuttosto impressionanti, ma esistono i controlli». Anche il fuoriclasse sloveno si è appellato agli esiti delle analisi per professare la sua innocenza. Il ciclismo, come in generale tutti gli sport in cui il lavoro aerobico è cruciale, è continuamente alla ricerca di modi nuovi – e leciti – per portare ossigeno ai muscoli: per questo si va in ritiro in altura, per questo molti corridori dormono nelle rumorosissime camere ipobariche, per questo diverse squadre hanno cominciato a utilizzare un riciclatore di monossido di carbonio. Si può? Si può.

Ruth Chepngetich calza le scarpe di ultima generazione, quelle che fanno volare e che sembrerebbero spiegare tutte le ultime prestazioni mostruose nella maratona e nel mezzofondo. Ruth ha le calzature magiche, come no, però viene dal Kenya, paese in cui i controlli antidoping non sono famosi per serietà e credibilità. Già nel 2018 la Wada aveva stilato un rapporto in cui si contavano 138 positività tra gli atleti del Kenya dal 2004, e solo in minima parte (14%) erano state scoperte con dei controlli fuori competizione.

I guadagni dei maratoneti, decisamente superiori a quelli di altre specialità dell’atletica, sembrano essere un incentivo sufficiente. Dopo aver rischiato una sospensione dalla federazione internazionale, il Kenya ha stanziato 25 milioni di dollari per dotarsi in 5 anni di un’agenzia antidoping autonoma e credibile. Ma una prestazione «aliena» di un’atleta di quel paese continua a fare scalpore. Incredibile, stupefacente.

La vocina in sottofondo

Abbiamo appena visto Pogačar pedalare apparentemente senza sforzo su una delle salite più dure del ciclismo europeo. «Non fa fatica», diceva la gente allibita vedendolo passare. L’impressione era quella. Mentre vola da solo verso il traguardo lo sloveno ha il tempo di fare ciao alla telecamera, di leggere i cartelli dei bimbi che gli chiedono la borraccia e prontamente lanciargliela, non fa che sorridere a destra e a sinistra. Possono bastare una preparazione perfetta, un programma appropriato, un nuovo allenatore, pedivelle più corte e una diversa posizione in bici ad esagerare a tal punto il grandioso talento di un campione?

Perché no? I fuoriclasse sono sempre esistiti, anche se nascono ogni trenta, forse cinquant’anni. Purtroppo il ciclismo ha un passato complicato, e chi stravince provoca prima di tutto una sana diffidenza. La perdita dell’innocenza fa sì che non riusciamo più a goderci pienamente quello che vediamo. C’è sempre una vocina in sottofondo che ci dice: ma ti fidi?

Se fosse fantasia

Per essere davvero felici, per godere fino in fondo di quello a cui stiamo assistendo avremmo bisogno di ricorrere alle categorie dell’arte, o ai concetti dei filosofi. Soltanto l’arte può metterci di fronte al sublime, e convincerci dell’infinità e della potenza della natura. Soltanto così il volo leggero di Ruth Chepngetich o la fuga solitaria di Tadej Pogačar possono apparirci come grandezze uguali soltanto a se stesse.

Il dubbio si insinua quando ci rendiamo conto che sono donne e uomini come noi, che però non potremo mai arrivare a tanto. Allora abbiamo bisogno dei numeri, dei paragoni, dei confronti, ci ancoriamo al passato per spiegarci qualcosa che ci appare troppo grande perché possiamo capirlo.

Se fosse un’opera di fantasia, sarebbe tutto semplice: non abbiamo mai avuto problemi ad accettare che Harry Potter sappia fare un incantesimo, che Superman voli sulla città di notte per proteggerci, o che i droidi di Guerre Stellari abbiano addirittura sentimenti.

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