Capaci, l’incredibile storia del comandante dei carabinieri Paolo Conigliaro brutalmente cacciato e umiliato perché stava indagando sui notabilati locali. Imputato per un’inesistente diffamazione, davanti a un tribunale militare è stato assolto: «Questo dibattimento non si sarebbe dovuto aprire»
- Una caccia all’uomo per una foto di Stanlio dentro un gruppo chiuso di WhatsApp. Poi un calvario giudiziario e umano durato quattro lunghi anni. Ispezioni corporali e accertamenti psichiatrici, un’indagine “punitiva“.
- Il maresciallo stava conducendo un’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose al comune di Capaci e su una variante urbanistica che trasformava un terreno in un’appetibile zona commerciale. L’hanno fermato prima.
- La giustizia ordinaria ha archiviato il suo caso mentre quella militare l’ha trascinato a giudizio con accuse farneticanti. Ma nessuno ha mai indagato sugli intrighi denunciati dal maresciallo.
Una mattina gli ordinano di spogliarsi. Via tutto, anche le mutande. Poi inizia l’ispezione corporale in una stanza al primo piano della caserma “Carini” di Palermo, una scalinata che si affaccia sul teatro Massimo e dall’altra parte un bastione che arriva sino al mercato del Capo.
Cercano nelle intimità di un maresciallo dei carabinieri una scheda telefonica che non troveranno mai. Un’altra scheda telefonica, la seconda, perché la prima l’hanno già presa e lì dentro c’è la “prova” che l’inchioda.
Il corpo del reato: una foto del celebre attore comico Stan Laurel, con accanto il nome di un alto ufficiale che sembra proprio il sosia di Stanlio. Gruppo chiuso di WhatsApp, sette militari della stazione di Capaci, nessun insulto e un solo colpevole. Da far fuori a tutti i costi. Da delegittimare, umiliare. Nonostante un impeccabile stato di servizio dopo ventotto anni passati nell’Arma. Di quale macchia ha sporcato la sua bella divisa da carabiniere? Di quale infame delitto si è reso responsabile il luogotenente Paolo Conigliaro per scatenare una caccia all’uomo e attivare investigazioni riservate solo ai più pericolosi boss mafiosi?
Delirio investigativo
Questa è una piccola storia che forse nasconde una storia più grande e misteriosa, una banalissima e confidenziale conversazione fra colleghi che diventa un processo lungo due anni e mezzo davanti ai severi giudici di un tribunale militare, generali di brigata e generali di corpo d'armata trascinati in un vortice, venticinque testimoni, due perizie informatiche, tredici cellulari sequestrati, sette magistrati chiamati ad accusare o a sentenziare. E tutto dentro un processo che definire balordo è poco. Spreco di denaro pubblico, accanimento, delirio investigativo.
C'è tutto questo nella strabiliante vicenda di Paolo Conigliaro, comandante dei carabinieri di Capaci sino a quando non l’hanno brutalmente allontanato. Perché? Perché probabilmente stava indagando dove altri non osavano, perché disturbava califfati locali legati a potenti della Sicilia, perché aveva appena inviato una relazione per lo scioglimento per mafia del consiglio comunale. Troppo.
Quella foto di Stanlio girata su WhatsApp è stato soltanto il principio del calvario, umano e giudiziario. Un verdetto della Corte di Appello militare di Roma una settimana fa non solo l’ha assolto ma ha anche dichiarato l’"improcedibilità” dell’azione penale: il dibattimento non si sarebbe neanche dovuto aprire.
Le cose però sono andate altrimenti. E, ormai, c’è l’odioso sospetto di un processo celebrato per “punizione”. Il maresciallo andava in qualunque modo fermato.
Il blitz nella caserma
Tutto comincia il 21 maggio del 2018 e tutto finisce (Cassazione permettendo) il 12 ottobre del 2022, al centro dell’intrigo il paese di Capaci dopo la strage Falcone, affari poco chiari, una variante urbanistica che trasforma un terreno in un’appetibile zona commerciale, carabinieri in aspettativa che fanno i consiglieri comunali, il luogotenente Paolo Conigliaro che fa solo il comandante della sua stazione.
Sulla chat interna della caserma di Capaci spunta quella foto di Stan Laurel accostata al nome del generale Renato Galletta, che è il capo dell'Arma nella Sicilia occidentale. Nulla di che, tant’è che quel generale non se n’è mai lamentato.
Ma, qualcuno, presenta querele e fa avere un cd con quella foto e con una mezza dozzina di screenshot al colonnello Antonio Caterino, comandante dei carabinieri di Palermo. Tre giorni dopo, il 24 maggio, il colonnello invia una segnalazione alla procura della repubblica. Si saprà soltanto dopo, molto tempo dopo, che alcuni di quegli screenshot erano stati alterati, taroccati.
La denuncia è sulla scrivania del sostituto procuratore Maria Pia Ticino il 13 giugno, Conigliaro è formalmente indagato per diffamazione. Mentre la magistrata lo ascolta cinque ufficiali piombano alla stazione dei carabinieri di Capaci per interrogare tutti gli altri militari, un’operazione in grande stile, un blitz nella caserma per una foto di Stanlio.
Lo studio legale Schifani
Passano alcune settimane, il 7 di agosto il pubblico ministero Ticino si accorge che dentro quel fascicolo c’è il nulla e chiede l’archiviazione, il 30 settembre il giudice delle indagini preliminari la concede. Tutto finito? No, tutto sta per cominciare.
Mentre la giustizia ordinaria abbandona un’inchiesta inutile, la giustizia militare è implacabile. Per lo stesso reato: diffamazione. Il luogotenente Conigliaro è imputato adesso davanti al Tribunale militare di Napoli. Intanto i suoi superiori a Palermo gli fanno sapere: «Te ne devi andare da Capaci». Lui non molla, resiste sino a quando può.
Si mette a rapporto con il comandante generale dell’Arma che non gli risponde, manda un dossier sulle sue indagini a Capaci (carabinieri sospettati di spiate, di ingerenze nelle inchieste, di palesi situazioni di incompatibilità ambientale), si agita e si dispera. Non c’è niente da fare: deve lasciare Capaci. Soprattutto deve interrompere le ricerche sul centro commerciale che qualcuno vuole realizzare alla periferia del paese.
La pratica è curata dallo studio Pinelli-Schifani (sì proprio lui, il neo governatore della Sicilia Renato Schifani attualmente a processo per associazione a delinquere che ha come capofila l’ex vicepresidente di Confindustria Antonello Montante), l’affare interessa il “re dei supermercati” siciliani Massimo Romano, che di quel Montante è amico oltre che coimputato. Coincidenze. C’è anche un giornalista locale che ficca il naso nell’area commerciale di Capaci, un giorno un noto faccendiere legato al sistema delle cooperative lo avvicina e gli dice: «Attento, è meglio che cambi strada».
Gli encomi alla Dia
Così il luogotenente Conigliaro se ne va da Capaci e trasferito alla Dia, la direzione investigativa antimafia di Palermo. È il 24 settembre 2018. Qualche giorno prima, il 15, Conigliaro viene convocato alla caserma “Carini” e spogliato nudo. Deve consegnare la sua pistola d’ordinanza, lo vogliono sottoporre a un accertamento psichiatrico. Una persecuzione vergognosa.
I protagonisti sono alcuni ufficiali che prendono ordini da altri ufficiali, qualcuno (ma si scoprirà dopo e dalle indagini su Montante) anche amico dell’ex vicepresidente di Confindustria e di fedelissimi di Schifani.
A Palermo fanno girare voci sull’ormai ex luogotenente di Capaci: è un mitomane, è pazzo. Insinuazioni, che volano di bocca in bocca. Alla Dia nel frattempo gli assegnano inchieste delicate, alla Dia nel frattempo riceve due encomi.
Quando sta per aprirsi il processo al tribunale militare di Napoli – siamo già nel 2019 – i suoi accusatori si accorgono che c'è un problema. Per trascinare in giudizio un maresciallo per “diffamazione militare”, reato la cui pena non supera i sei mesi di reclusione, ci vuole una sorta di nulla osta da parte del capo del reparto al quale appartiene l’imputato.
Il capo della Dia di Palermo risponde: «Per me Conigliaro non va processato, semmai verifico se ci sono gli estremi per un procedimento disciplinare». Alla procura militare di Napoli sono spiazzati, però rimediano e superano subito l’ostacolo.
Trasformano la diffamazione semplice in aggravata, così la pena sale da sei mesi a tre anni. La motivazione: WhatsApp non è un circuito chiuso ma è come Facebook, è come un sito online. è come un giornale.
L’indagine è di un sostituto procuratore militare, in aula a chiedere la condanna per Conigliaro si presenta il procuratore capo Giuseppe Barone. Ci teneva assai l’ufficio della pubblica accusa a questo processo per una foto di Stan Laurel.
Sentenza scontata: cinque mesi e cinque giorni di reclusione. Il verdetto è del 15 gennaio del 2021. Passa più di un anno e mezzo e la Corte di Appello di Roma (unica per tutta Italia) l’altra settimana assolve il maresciallo perché dice che l’aggravante della diffamazione è stata “inventata”.
Quindi quel processo non sarebbe dovuto esistere. La pubblica accusa si rivolgerà alla Cassazione militare perché, questo il senso, prima o poi WhapsApp comprato da Marck Zuckerberg, diventerà come Facebook e così l’aggravante della diffamazione tornerà. Il luogotenente Paolo Conigliaro attende l’ultima sentenza.
I segreti del centro commerciale
A margine. Qualcuno ha mai indagato a Palermo – per esempio la procura della repubblica – sulle indagini e sulle accuse avviate dal maresciallo sul comune di Capaci? Qualcuno ha mai indagato sul perché un integerrimo carabiniere è stato sottoposto a vessazioni da parte dei suoi comandi? Qualcuno ha mai rovistato nei segreti di quel centro commerciale?
Anche il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Teo Luzi, che conosce bene Palermo per averne retto il comando provinciale, dovrebbe interessarsi a questa brutta storia siciliana. Magari potrebbe scoprire qualcosa che i suoi ufficiali forse non gli hanno detto.
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