Luciano Gaucci è forse l’ultima espressione degli italiani col sogno sovradimensionato che, poi, si esplicitavano nel calcio. I provinciali capaci di stare nel mondo se non col piglio, la lingua e lo charme di Gianni Agnelli almeno con i moti di grandezza, appresi nei bar, immaginati tra le nuvole di fumo e le grappe, una illusione cinematografica o favolistica.

Negli anni Ottanta la serie A ne aveva diversi di questa stirpe, basti pensare ad Antonio Sibilia presidente dell’Avellino che sembrava uscito dai romanzi di John Fante, a Romeo Anconetani presidente del Pisa e personaggio monicelliano, o a Costantino Rozzi che era geometra ma si percepiva come ingegnere, indimenticabile il suo scambio con Carmelo Bene al “Processo del lunedì” di Aldo Biscardi sulle poltroncine acquistate dalla ditta di famiglia dell’arbitro Riccardo Lattanzi.

E vedendo il documentario Luciano Gaucci. Quando passa l’uragano (di Giacomo Del Buono, Carlo Altinier e Paolo Geremei, in onda martedì 5 novembre su Sky Crime e Sky Documentaries) viene da pensare a una serie di documentari su questi provinciali sognatori di mondi calcistici e costruttori di mondi imprenditoriali. Già presidenti come Zamparini e Cellino – più presenti nella memoria dei giovani – sono una evoluzione di quel sogno, non più spettinati avventori della serie A, ma solo presidenti con un carattere da anteporre alle squadre, ultimi guaiti prima dell’avvento dei fondi, dell’anonimato con i numeri al posto delle facce.

Baiardo e Tony Bin

Gaucci no, Gaucci era un possessore di biglietto vincente per una riffa che gli ha regalato una vita da film, con tanti ruoli: parte dall'ATAC – l’azienda di trasporti romani – e da tram e bus salta su un cavallo che se non è alato è sicuramente veloce e fortunato e da lì diventa un bucaniere del calcio. È curioso come in questa favola non nera ma rossa – dalla maglietta del Perugia, la squadra di gamma tra le proprietà gaucciane – sia un cavallo ad aprire la strada della triste e fortunata storia del candido Luciano Gaucci e della sua famiglia numerosa e bellissima – i due figli, nel documentario, Alessandro e Riccardo ne escono benissimo, anche con una competenza calcistica non comune – e il fatto che ci sia anche un castello, a fare da scena fissa delle loro vicende, quello di Torre Alfina ad Acquapendente, fa pensare a un tentativo d’entrare nel mondo di Ludovico Ariosto uscendo da quello della commedia all’italiana.

Perché pensare Gaucci proprietario de La Milanese (ditta di pulizie in origine La candida di proprietà del padre della sua prima moglie, Veronica del Bono) che viene chiamata così perché quello che viene da Milano è più affidabile e vendibile, fa già capire che a metà degli anni Settanta l’Italia aveva ancora una ingenuità e delle illusioni. Comunque Gaucci aveva ragione: il nome paga, e La Milanese finisce per pulire mezzo paese da nord a sud: stazioni, aeroporti, ministeri, metropolitane e molto altro, fino a diventare la ditta di pulizie più grande d’Italia.

Ma la svolta avviene grazie a un cavallo magico. Nell'Orlando Furioso si dice che il cavallo Baiardo «ch'avea intelletto umano» e Gaucci parlando del suo Tony Bin – massima espressione della White Star, la sua scuderia ippica: comprato per 12 milioni di lire, gli fruttò oltre 3 miliardi in vincite, tra queste il Prix de l’Arc de Triomphe nel 1988, la finale della Champions League delle corse di cavalli, e fu rivenduto per 7 miliardi a una scuderia giapponese – dice: «il cavallo è una persona che non ti tradisce».

Andreotti e Ciarrapico

E c’è già tutto Gaucci e la sua parabola. E il suo linguaggio da realismo magico, c’erano già i Caraibi e il mare – se non con Gabriel García Márquez sicuramente con Mario Vargas Llosa – dove poi scapperà e dove ora è sepolto: Santo Domingo. Ma prima sono i cavalli che lo legano a Giulio Andreotti, servito & riverito, col quale condivide anche il tifo per la Roma, tanto che Gaucci arriva a essere vicepresidente della squadra dietro Dino Viola, ma proprio Don Giulio alla morte di Viola tra Gaucci e Ciarrapico sceglie il secondo, per dare una lezione al “provinciale” che non ha ancora le spalle abbastanza larghe per essere proprietario di una squadra come la Roma.

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Ma si sa, fai un torto a un sognare e questo moltiplica il sogno, se non può avere la sua squadra ne comprerà altre che sommate daranno l’impressione di averla, o sembreranno la preparazione per averla. Compra il Perugia nel 1991, poi il Catania, la Viterbese – dove mette in panchina Carolina Morace – e la Sambenedettese, e pare che avesse anche l’Ancona, provò a prendere il Napoli prima di De Laurentiis. Dopo aver comprato il Perugia – in serie C1 promettendo subito la A –, si presentò alla città con una passeggiata per il corso Vannucci, un gesto da romanzo di Vitaliano Brancati. Quanta provincia, quanta ambizione. Ecco l’uragano, del titolo del documentario.

Da questo momento in poi Gaucci diventa una maschera, il suo faccione comincia ad occupare pagine e schermi, e la sua bulimia dalla tavola passa ai campi. È spregiudicato e irruento, un tifoso assoluto che voleva sempre vincere, ad ogni costo, mai sazio. Dal 1991 al 2004 consuma tantissimi allenatori, tra questi Ilario Castagner, Giovanni Galeone, Walter Novellino, Carletto Mazzone e soprattutto Serse Cosmi vera stella di ghiaccio della sopportazione. La squadra raggiunge la semifinale di Coppa Italia (2002-2003), partecipa alla Coppa UEFA (2003-2004), vince la Coppa Intertoto (2003), e soprattutto fa perdere lo scudetto alla Juventus di Carlo Ancelotti, segna Calori, lo scudetto va alla Lazio, sotto una pioggia manzoniana. Poi Gaucci la racconterà come una ribellione al sistema messo in piedi da Luciano Moggi.

Nakata e Gheddafi

Seguirà un memoriale, vero, falso, esagerato, sincero, straripante, come tutta la vita di Gaucci. Ma prima, c’è la trasformazione del Perugia in una squadra eccentrica una sorta di aeroporto internazionale dove atterravano giocatori dalle parti più strane del mondo e meno calcistiche dagli etiopi al cinese – nell’era pre-Cinacalcio – Ma Mingyu personaggio vanziniano.

Ma in questo prendi e vendi, vieni e vai, in questi due tocchi senza pallone arrivò il sudcoreano Ahn Jung-hwa che col suo gol e i cross dell’arbitro Moreno eliminò l’Italia ai mondiali del 2002 e che Gaucci licenziò in diretta al “Processo del lunedì” di cui si serviva con nonchalance come Silvio Berlusconi utilizzava “Porta a Porta”; arrivò Saadi Gheddafi figlio del colonnello Muʿammar Gheddafi – che aveva quote Eni, Unicredit e Juventus –, che poi andò all’Udinese e che Franco Scoglio, allenatore della nazionale libica nel 2002, non convocherà mai, dichiarando «non amo subire i ricatti di nessuno»; ma soprattutto al Perugia di Gaucci arrivò Hidetoshi Nakata che dal 1998 al 2000 genererà una vera febbre giapponese di cui beneficerà la sua ditta Galex – marchio italiano di abbigliamento sportivo –, un altro film.

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Era eccentrico, ma le eccentricità diventavano soldi.

Il documentario segue le tante vite di Gaucci, la sua storia con Elisabetta Tulliani – che poi tanti pensieri e guai porterà a Gianfranco Fini –, il fallimento del Perugia, e il successivo patteggiamento di tre anni per bancarotta fraudolenta e reati fiscali da latitante nella Repubblica Dominicana dove poi si creerà una nuova famiglia. Dai bus di Roma al mar dei Caraibi si snoda la triste e fortunata storia di Luciano Gaucci e del suo candido sogno d’essere almeno un po’ come Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi montando su un cavallo e poi su diverse squadre, pulendo i luoghi di viaggio del paese, comprando un castello e poi finendo a ripensarci a Santo Domingo in un appartamentino troppo troppo stretto per chi aveva pensieri larghi in vita e in testa.

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