Botte dagli agenti, litri di metadone incustoditi, soccorsi tardivi. Un detenuto in coma con fratture multiple. E poi spedizioni punitive, giornate intere senza cibo, celle chiuse per mesi.

Questo, secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, è ciò che sarebbe successo nel carcere di Rieti nel marzo 2020. Quello laziale è uno dei penitenziari in cui scoppiarono violente rivolte nei primi mesi di Covid-19.

A Modena morirono in nove per overdose da metadone, poi la procura ha aperto un fascicolo per tortura e si indaga anche sui soccorsi.

A Santa Maria Capua Vetere le immagini diffuse da Domani hanno mostrato le violenze degli agenti contro i detenuti, che hanno portato 105 persone a processo.

Su Rieti, dove sono morti tre detenuti, finora ha regnato il silenzio e come scrive Sara Manzoli in Morti in una città silente, «la cortina fumogena calata sui fatti di Rieti è ancora più intensa e impenetrabile di quella scesa su Modena e altre carceri». Ma il materiale che abbiamo raccolto prova a gettare un po’ di luce.

La rivolta

Il caos nel carcere di Rieti è scoppiato alle 14.30 del 9 marzo 2020. La miccia è stata la sospensione dei colloqui causa Coronavirus, ma anche la paura del contagio in una struttura con un tasso di sovraffollamento del 42 per cento.

Per sei ore l’istituto è stato in mano ai detenuti. Brandine usate come arieti per sfondare i cancelli, persone sul tetto, ambienti comuni devastati. Poi l’assalto all’infermeria.

La relazione della Commissione ispettiva costituita dal Dap dice che sono stati «depredati gli armadi dei farmaci» ed è stata «svuotata la cassaforte con il metadone».

Alle 20.30, dopo lunghe trattative, la rivolta si è conclusa e alle 22 i detenuti avevano fatto ritorno in cella. Per il Dap la rivolta è stata gestita in modo “corretto ed efficace”. Eppure tante cose non tornano.

Il metadone

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Il giorno dopo la rivolta i tre detenuti Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez sono stati trovati morti in cella. La relazione del Dap parla di “intossicazione da metadone” e nega un rapporto di causalità tra i decessi e il comportamento degli operatori penitenziari. Le nostre fonti smentiscono. 

«Quando è scoppiato il caos le guardie sono scappate dall’edificio e hanno lasciato il gabbiotto con le chiavi delle celle e dell’infermeria aperto», spiega un ex detenuto.

«A quel punto è stato facile accedere alla cassaforte con il metadone». La versione è confermata da un altro ex detenuto: «Gli agenti presi dal panico hanno lasciato tutto aperto».

Anche la relazione del Dap fa alcune ammissioni, scrivendo che gli ambulatori e la farmacia si sono rivelati “troppo alla portata” dei detenuti. Dubbi al riguardo arrivano anche da un agente del carcere.

«Non si è capito perché c’era tutto quel metadone conservato in infermeria. La somministrazione ai detenuti è di pochi millilitri eppure nella stanza ne sono stati trafugati non ricordo se 8 o 18 litri. Una cosa assurda». 

L’agente sostiene che i detenuti abbiano tirato giù la porta dell’infermeria con le brandine.

Nel carcere non sarebbero state dunque prese le giuste precauzioni per rendere il metadone inaccessibile. «Lo bevevano dalle bottiglie come fosse acqua. Non volevano suicidarsi ma semplicemente farsi», spiega un terzo ex detenuto.

La relazione del Dap afferma che a partire dalle 18 il personale sanitario è entrato in carcere per soccorrere chi accusava malessere a causa del metadone. Altri sono stati soccorsi in serata. Eppure tre di loro sono morti solo il giorno dopo, in cella.

Le perquisizioni

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«Quando la rivolta è rientrata ci hanno lasciato allo sbando. Molti hanno continuato a prendere metadone, non sono stati fatti controlli in cella. Passavano giusto per chiedere se avevamo trafugato qualcosa ma ovviamente nessuno apriva bocca», denuncia un ex detenuto.

«Molte persone si sono tenute scatole di pasticche, altre hanno continuato a bere metadone durante la notte. Probabilmente sono morti così», spiega un altro.

La relazione del Dap non vede mancanze nell’operato securitario e sanitario nelle ore successive alla rivolta, ma ad aprire uno squarcio in questa narrazione è un agente penitenziario.

«Alla sera a rivolta terminata abbiamo fatto giusto la conta ma non siamo entrati nelle celle», spiega, aggiungendo che i detenuti avevano rubato bisturi e altro materiale e questo rendeva pericoloso intervenire.

«Onestamente lo Stato doveva fare di più. Dovevano mandarci il personale, darci modo di fare perquisizioni cella per cella, metterci in condizione di poter lavorare bene. Non è stato così».

I detenuti avrebbero così continuato indisturbati ad assumere metadone, abbandonati a loro stessi dallo Stato. In tre avrebbero pagato con la vita.

La squadretta

Nelle fasi finali della rivolta diversi detenuti sono stati ricoverati per intossicazione. Ma leggendo i referti medici si trova altro.

Uno di loro ha passato diversi mesi in coma e si è risvegliato con decine di punti di sutura in testa. Il suo fascicolo sanitario parla anche di fratture costali multiple.

«L’ultimo mio ricordo è l’irruzione degli agenti, poi si è spenta la luce», racconta.

«Le mie fratture non possono avere a che fare con il metadone. In questi anni ho provato a ricostruire quello che mi è successo. Dicono che gli agenti mi hanno riempito di botte».

L’agente con cui abbiamo parlato afferma invece che durante la rivolta diversi gruppi di detenuti si sono picchiati tra loro.

Il detenuto uscito dal coma però non ci crede. «Ho dovuto ricominciare tutto da capo nella mia vita, a mangiare, a parlare. Sono messo male. Ho l’invalidità e ora ho fatto la richiesta per l’aggravamento».

Nei giorni successivi alla rivolta uno squadrone di agenti ha fatto diversi sopralluoghi a Rieti, che secondo il Dap si sono svolti senza condotte violente.

Diversa la ricostruzione che abbiamo letto in alcune lettere di quei giorni, che parlano di “abusi fisici e psicologici” e di “pestaggi”. E quella raccolta da ex detenuti appartenenti a sezioni differenti dell’istituto.

«Entravano in cinque-sei guardie in cella per fare la perquisizione, ci facevano spogliare e uscire. Dovevamo percorrere un corridoio di una cinquantina di metri, un agente ci teneva la testa bassa e le braccia bloccate e circa 20 guardie a destra e 20 a sinistra ci davano pugni, schiaffi, manganellate e ci insultavano», racconta uno di loro.

«Ci mettevano tutti in una stanza e finite le perquisizioni dovevamo rifare il percorso e riprendere le botte».

Scene che, se veritiere, ricordano quanto visto nei filmati di Santa Maria Capua Vetere. Secondo un altro ex detenuto gli agenti erano una cinquantina.

«Non erano quelli di Rieti, loro erano abbastanza gentili. Era una squadretta che veniva da fuori. Hanno voluto dare una punizione per mostrare chi comandava, soprattutto contro quelli che pensavano avessero avuto un ruolo nella rivolta»

Diverse persone rimaste ferite non sarebbero state soccorse. Anche altri due ex detenuti raccontano le stesse scene: «C’è chi ha preso un sacco di botte», e «quelli che hanno partecipato alla rivolta sono stati trattati con maniere più forti».

L’agente di Rieti con cui abbiamo parlato ammette che «i vaffanculo si sono sprecati». Per il resto è vago.

«Mani addosso io non ne ho viste. Se c’è stato qualcosa quando non c’ero non lo so dire. Lascio il beneficio del dubbio perché non lo posso sapere, cosa dico una bugia?».

Il silenzio

Nei giorni successivi alla rivolta i detenuti sarebbero stati lasciati senza cibo. «Non passavano i pasti visto che la cucina era inagibile. Chi di noi aveva un po’ di spesa riusciva ad arrangiarsi, ci si lanciava anche il cibo tra le celle».

Un altro racconta che ci sono persone che «non hanno mangiato per tre giorni».

Tutti i detenuti senza distinzioni sarebbero poi stati lasciati chiusi 24 ore su 24 in cella per mesi, una sorta di carcere duro. «Una punizione per la rivolta».

Alcuni di questi elementi erano già emersi in una lettera anonima pubblicata su un blog e ripresa da Lorenza Pleuteri su Repubblica.

Ora il racconto si arricchisce con le testimonianze di agenti e detenuti con nomi e cognomi (che abbiamo omesso) oltre che con materiale visionato direttamente. Abbiamo chiesto chiarimenti alla direttrice del carcere, Vera Poggetti, che non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Alla Procura della città laziale è aperta un’indagine a carico di ignoti sulle morti nell’istituto, ma come ci spiega l’avvocato della famiglia di una delle vittime, a quasi tre anni dai decessi tutto è fermo.

Abbiamo fatto domanda al procuratore cittadino per avere qualche informazione in più, ma le richieste sono state respinte.

Le immagini delle videocamere inoltre non ci sono, sarebbero state distrutte dai detenuti durante la rivolta. Sulle morti di Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez e su tutto quello che è successo nel 2020 nel carcere di Rieti continua a regnare il silenzio.

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