Meno ospedale più territorio. Questo è il mantra che da anni la politica italiana ripete, indifferente ai cambi di schieramento e di governo, mentre l’evoluzione tecnologica e iperspecialistica della medicina spinge le persone a cercare sempre di più negli ospedali la risposta ai propri problemi di salute. La questione si pone anche per quello che riguarda le condizioni acute di malattia, cioè tutte quelle che non hanno a che fare con la cronicità e la prevenzione, di cui la medicina generale si è occupata prevalentemente negli ultimi cinquant’anni.

I due assi portanti di un progetto che voglia portare le urgenze (minori) fuori dai pronto soccorso (Ps) sono una riorganizzazione (rivoluzione?) della medicina generale e un accesso veloce ed efficiente alla diagnostica sul territorio.

Il Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza, fa propri, con le parole generiche dei grandi piani strutturali, questi obiettivi. Vi si legge infatti: «Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale: gli interventi di questa componente intendono rafforzare le prestazioni erogate sul territorio grazie al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali (come le case della comunità e gli ospedali di comunità), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina e una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari».

Un cambiamento culturale

L’esperienza delle case della comunità, pietra angolare di questo progetto che con vari nomi è già in atto da alcuni anni, non si è però dimostrata (almeno nella maggior parte dei casi) efficiente quanto si sperava. Mettere i medici a lavorare in gruppo, dare loro un supporto segretariale e infermieristico e invitarli a usare più tecnologia non basta. Bisogna cambiare la cultura della medicina generale e orientarla verso interventi proattivi di controllo regolare dei pazienti cronici più gravi che consentano di prevenire le riacutizzazioni.

Bisogna costruire occasioni di interazione diretta tra i medici ospedalieri e i medici curanti per ogni paziente ricoverato. Bisogna che i medici di famiglia mostrino una nuova disponibilità a seguire al domicilio i malati più fragili, recuperando almeno un po’ dell’enorme terreno che hanno perduto in questo campo. E la telemedicina non sarà sufficiente se chi ha le competenze per leggere un’ecografia o una radiografia fatte a domicilio non avrà modo di interagire, direttamente e velocemente, con il medico curante.

Cosa si può fare

Mentre aspettiamo lo sviluppo della telemedicina ci sono però molte cose che si possono fare qui e ora. I medici di medicina generale devono riconoscere come parte importante del proprio lavoro il contenimento degli esami inappropriati (spesso, bisogna riconoscerlo, indotti da specialisti che non fanno alcuno sforzo per condividere con loro la ragione delle proprie richieste).

D’altra parte i policy-maker devono assumere la responsabilità, uguale e contraria, di rendere gli esami essenziali disponibili in tempi brevi, evitando agli utenti la sempre più frequente litania «O va privatamente o va in pronto soccorso» che conclude ogni tentativo di ottenere un appuntamento in tempi ragionevoli. Si potrebbero anche sperimentare “pacchetti di esami” che non costringano gli utenti a prendere tre appuntamenti separati, in tre date diverse, per eseguire un elettrocardiogramma, una radiografia e un minimo di esami di laboratorio.

Anche se oggi è ancora eresia parlarne, non sarebbe infine fuori luogo, né troppo tardi, per aprire un discorso chiaro sul rapporto di lavoro dei medici di medicina generale. Il loro ruolo di professionisti convenzionati ne fa infatti la lobby più potente in assoluto in campo medico, rendendo difficile modificare qualsiasi cosa senza estenuanti (e spesso perdenti) trattative. Un passaggio alle dipendenze del servizio sanitario nazionale deve continuare ad essere un tabù? Il problema del rapporto fiduciario è reale o è un paravento dietro cui barricarsi per difendere una condizione di privilegio? Il mondo è pieno di modelli a cui ispirarsi, da Israele al Canada, alla Gran Bretagna. Chi avrà il coraggio di organizzare un grande convegno nazionale per far conoscere e per confrontare queste esperienze e i loro risultati?

Se niente di tutto questo verrà fatto, la battaglia con il pronto soccorso (ma dovrei dire per il pronto soccorso), non sarà mai vinta. Il pronto soccorso è troppo comodo, troppo efficiente, troppo tecnologico, troppo a buon mercato.

La rivoluzione mancata

Ma il pronto soccorso ha anche altre aspettative nei confronti dei policy-maker. La prima è che si riconosca che un Ps che non funziona è quasi sempre il sintomo di un ospedale che non funziona. Se in Ps ci sono 20 malati in attesa di ricovero da ore o da giorni, il problema non è del Ps, è dell’ospedale. Esistono esperienze di grandi e medi ospedali (in Friuli Venezia Giulia, in Emilia Romagna, in Toscana) dove ogni giorno viene riservato al Ps un numero fisso di posti letto di degenza, calcolato sulla base delle necessità medie, ad un tasso di ricovero ottimale. Le attese sono ridotte al minimo. I flussi di pazienti scorrono veloci. I tempi di permanenza in Ps sono ragionevoli. Si tratta purtroppo di esperienze isolate e minoritarie che, a differenza di quanto avviene, dovrebbero essere invece conosciute, studiate nei dettagli organizzativi e diffuse, con i necessari adeguamenti, a tutti gli ospedali.

Un secondo impegno per i decisori della sanità è una nuova politica del personale nei reparti d’urgenza. Non si può pensare che a 50 o 60 anni i medici d’urgenza possano continuare a fare un lavoro che li impegna, sempre in prima linea, in un numero spesso spropositato di turni festivi e notturni. È dunque necessario prevedere per i medici d’urgenza la possibilità di un trasferimento verso altri incarichi prima del burn-out definitivo. Per fare questo si dovrà lavorare sui concorsi e sul meccanismo delle equipollenze tra specialità. Non ha alcun senso che un geriatra, un cardiologo, uno pneumologo possano partecipare a un concorso per il Ps (dove incontreranno anche pazienti ortopedici e chirurgici, il geriatra dovrà comunque valutare pazienti cardiologici e il cardiologo i pazienti con problemi polmonari) mentre a uno specialista in medicina d’urgenza (che valuta in Ps ogni anno centinaia di grandi anziani e di pazienti con problemi respiratori o cardiologici) sia impedito di partecipare ai concorsi per la medicina interna o le specialità mediche. Modificare questo stato di cose potrebbe anche favorire una diversa organizzazione del lavoro. Si potrebbe immaginare per esempio di avere un gruppo residenziale di specialisti in medicina d’urgenza, dedicati al Ps per dieci o vent’anni, che costituisca l’ossatura del reparto e coordini giovani medici, anche di altra specializzazione, ai quali sia chiesto di ruotare obbligatoriamente per due o tre anni in Ps prima di proseguire il loro percorso elettivo. Sono consapevole che si tratta di proposte da verificare (ma qualcosa in questo senso si è già provato a fare in Toscana) e che altre se ne potrebbero discutere, ma il messaggio è, una volta di più, che l’innovazione e il miglioramento non possono che passare attraverso l’abbattimento degli eccessivi vincoli burocratici, degli interessi di parte, dei campanilismi. Se tutto questo non si farà, resterà solo la possibilità di monetizzare il disagio, tornando a logiche veterosindacali che si speravano abbandonate per sempre. Sarà allora l’ennesima occasione perduta.

Concludo qui questo rapido giro in tre puntate sui grandi meriti e i grandi problemi del pronto soccorso.

Si tratta di un mondo al confine tra l’ospedale e la medicina del territorio che, come tutti i confini, separa culture, regole, linguaggi differenti ma che, come tutti i confini, offre anche l’occasione per incontri, mescolanze, sperimentazioni. Gli operatori dei pronto soccorso sono, e devono essere sempre più aiutati a divenire, quello che gli anglosassoni chiamano i “patients’ advocate” che non significa gli avvocati, ma piuttosto i difensori e i consiglieri dei loro pazienti. Devono avviare i cittadini al percorso più corretto di cura, aprendo le porte dell’ospedale solo quando è veramente necessario farlo, consapevoli che l’ospedalizzazione porta con sé almeno tanti rischi quanti benefici e che il sistema si regge in buona parte sulla coscienza con cui eserciteranno questo compito. Devono essere fieri delle loro competenze e della grande crescita professionale che hanno avuto negli ultimi decenni, ma allo stesso tempo consapevoli che la gestione dell’urgenza ospedaliera non può essere solo di loro pertinenza e che il miglioramento della qualità della loro vita, personale e professionale, può nascere solo dall’abbattimento di molti confini in una logica di confronto, interdisciplinarietà e collaborazione.

Questa era la terza e ultima puntata dell’approfondimento sui pronto soccorso portato avanti da Daniele Coen, medico d’urgenza, per 15 anni direttore del pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano.

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