La manifestazione a Milano per il 19enne morto in seguito all’inseguimento della gazzella dei carabinieri. Dopo la pubblicazione del video della “dashcam”, per i manifestanti «Ramy è stato ucciso dalle forze dell’ordine». Sul caso interviene Franco Gabrielli: «Se il tema è fermare una persona che sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo». Dopo queste parola protesta il sindacato dei carabinieri
Parlano esplicitamente di «omicidio di Stato» le persone scese in strada a Milano per chiedere «verità e giustizia per Ramy e Fares». È la seconda manifestazione dopo la fiaccolata a Corvetto di fine novembre, a pochi giorni dalla morte del diciannovenne egiziano e dalle violenze per le strade del suo quartiere. Ma ora c’è un video a cambiare le carte in tavola, quello della dashcam installata su una delle auto dei carabinieri impegnate nell’inseguimento. E per molti, non solo per il collettivo Rebelot che ha convocato la manifestazione, i dubbi di due mesi fa ora diventano certezze: «Ramy è stato ucciso dalle forze dell’ordine».
«Quale sicurezza?»
In piazza XXIV Maggio, tra la Darsena e i Navigli, c’è qualche scritta nuova sui muri: «Ramy vive, polizia assassina». Le stesse parole gridate contro le forze dell’ordine. Qualche persona che passa casualmente di lì si lamenta dei cori: «Dovremmo dire grazie, non insultarli». Uno striscione apre il corteo: «Giustizia per Ramy e Fares». Con una domanda: «Ma quale sicurezza?». Perché, lo ripetono in molti, «sicurezza è non venire uccisi dai carabinieri per un illecito amministrativo: non erano necessari otto chilometri di inseguimento. Sicurezza non è escludere il povero e l’immigrato. Da oggi non potranno più raccontare della Milano pericolosa senza che venga alla mente l’omicidio di Ramy».
Anche la colonna sonora dipinge bene la saldatura tra i movimenti sociali milanesi e i giovani come Ramy: la trap di Baby Gang e le rime di Ghali che danno voce ai ragazzi stranieri di seconda e terza generazione che abitano nelle periferie di San Siro o di Baggio.
Per scongiurare quel che è successo a fine novembre per le strade di Corvetto, prima dell’inizio del corteo prende la parola il fratello di Ramy: «Stiamo calmi, con la violenza non si risolve niente», riprendendo lo stesso appello del padre. Intorno alla manifestazione molti poliziotti in borghese e un cordone ombelicale di agenti del reparto celere che si tiene un po’ distante: l’obiettivo della Questura è quello di prevenire qualsiasi tipo di violenza. Nei giorni successivi la morte del diciannovenne a Corvetto si era scelto di mandare la polizia e non i carabinieri proprio per il coinvolgimento diretto dei militari dell’Arma.
Il posto scelto per l’inizio del corteo è anche «simbolico». La Darsena, e più in generale l’area intorno ai Navigli, è una delle cinque zone rosse istituite nel capoluogo lombardo lo scorso 30 dicembre che rimarranno in vigore fino a fine marzo in via sperimentale. Qui le forze dell’ordine avranno le mani ancora più libere per allontanare chi assume «atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti», con la possibilità del Daspo – strumento amministrativo nato per le manifestazioni sportive ma usato sempre più per tutte le questioni di ordine pubblico – in caso di precedenti per droga o reati contro la persona. Nella prima settimana, secondo i dati del ministero dell’Interno, solo a Milano sono state controllate 8.300 persone e allontanate 106.
Continuano le indagini
Intanto continuano le indagini della procura di Milano che, nei confronti del vicebrigadiere che guidava la gazzella che avrebbe speronato il TMax su cui viaggiavano Ramy e Fares, potrebbe presto formalizzare l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale. Tradotto: pur non cercando direttamente la morte del diciannovenne, con i suoi comportamenti il militare avrebbe accettato la possibilità che questa si potesse verificare. Gli inquirenti sono anche a lavoro per ricostruire l’eventuale catena gerarchica che potrebbe esserci stata dietro il tentativo di insabbiamento delle prove. Per questo altri due carabinieri sono indagati per falso e per depistaggio.
Sul caso è intervenuto un pezzo da novanta come Franco Gabrielli, già capo della polizia e poi sottosegretario con delega ai servizi segreti con Draghi, oggi super consulente alla sicurezza per il comune di Milano, secondo cui l’inseguimento dei carabinieri non si sarebbe «svolto nella maniera corretta». Perché «se il tema è fermare una persona che sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo. Questo – ha aggiunto – è un elementare principio di civiltà giuridica». E se il sindacato dei carabinieri polemizza e chiama la politica alle proprie responsabilità («dobbiamo sapere se inseguire un mezzo che non si è fermato all’alt sia ancora legittimo»), anche Beppe Sala ha commentato le nuove immagini dell’inseguimento di Ramy: «Danno un segnale brutto, non c’è dubbio».
© Riproduzione riservata