Un rapporto del Censis certifica l’emergenza, con pazienti che rinunciano alle cure. In tanti sono costretti a cambiare regione. L’autonomia rischia di aumentare il gap
In Italia il Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha contribuito nel tempo ad aumentare la nostra aspettativa di vita fino a 84 anni, specie nelle aree ad alto reddito. Almeno fino al 2019. Da quel momento i dati dimostrano infatti che il sistema è in crisi, a partire dall’accesso sempre più difficile ai percorsi di diagnosi e cura.
Secondo il rapporto “Ospedali e salute”, promosso in collaborazione con il Censis da Aiop, l’Associazione Italiana delle aziende sanitarie ospedaliere e territoriali e delle aziende socio-sanitarie residenziali e territoriali di diritto privato, la fragilità del sistema sta proprio nei tempi per la prenotazione delle prestazioni. I dati del report dimostrano infatti che per il 53,5 per cento degli italiani l’attesa è eccessivamente lunga rispetto all’urgenza della propria condizione clinica, mentre il 37,4 per cento segnala la presenza di liste bloccate o chiuse, nonostante siano formalmente vietate.
Rinunciare alle cure
Gli effetti del depotenziamento decennale del sistema sanitario nazionale si fanno poi più evidenti anche in termini di impoverimento degli utenti, che sempre più spesso si rivolgono alla sanità a pagamento per poter contare su prestazioni più rapide.
Provvedere di tasca propria alle spese per la salute non è sempre così immediato, al punto che una fetta della popolazione finisce spesso per procrastinare o rinunciare alle cure. La tendenza a una sanità per censo è così un rischio concreto: per ogni cento tentativi di prenotazione nel Ssn la quota che rinuncia e si rivolge alla sanità a pagamento, intesa come privato puro e intramoenia, è allarmante. Si tratta del 34,4 per cento dei redditi più bassi, del 40,2 per cento di quelli medio-bassi, del 43,6 per cento dei medio-alti e del 41,7 per cento dei più alti.
L’analisi di Aiop e Censis fa il punto anche sui viaggi intrapresi dai pazienti per farsi curare lontano da casa. Il motivo più ricorrente che spinge alla mobilità, riguardante il 31,6 per cento dei cosiddetti migranti sanitari (nonché il 51,8 per cento di coloro che dichiarano di essere in cattiva salute), è quello relativo all’eccessiva lunghezza delle liste di attesa nella propria regione. Segue un 26,5 per cento che cerca una prestazione migliore rispetto alle attività garantite dalla propria struttura, convinto che le differenze di performance delle sanità regionali siano persino aumentate nel tempo. Dalla totalità dei flussi di mobilità riferiti a tutti i regimi e a tutte le tipologie di ricovero si contano circa 600mila pazienti che hanno scelto di raggiungere altri centri di cura, con un saldo attivo per l’Emilia-Romagna che raggiunge ora le 58.761 unità, contro le 58.049 della Lombardia. Tra i territori più attrattivi anche il Veneto, la Toscana e il Lazio. Si emigra invece soprattutto da Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Liguria, Basilicata, Abruzzo, Marche e Sardegna.
I problemi
Nel 2021 la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto un valore di 4,25 miliardi di euro, con saldi estremamente variabili tra le regioni del nord e quelle del sud. Per saldo si intende la differenza tra mobilità attiva, ovvero l’attrazione di pazienti provenienti da altre regioni, e quella passiva, cioè la “migrazione” dei pazienti dal luogo di residenza. Un gap che rischia persino di essere aggravato dall’autonomia differenziata in sanità che legittimerà normativamente questo divario.
«Dal Rapporto Censis-Aiop emergono tanti punti di forza e molte criticità. Il sistema sanitario nazionale ha un’elevata capacità di garantire le cure migliori ai propri cittadini ma non possiamo ignorare come essi sperimentino continue barriere all’accesso alle prestazioni», spiega il ministro della salute, Orazio Schillaci. «Mi riferisco ai tempi d’attesa eccessivamente lunghi e alle liste addirittura bloccate». Secondo Domenico Mantoan, direttore generale di Agenas, il ministero della Salute deve riappropriarsi di un ruolo di programmazione. Delle liste d’attesa per esempio oggi conosciamo solo quelle percepite. «Non abbiamo a livello pratico contezza dei loro numeri né siamo in grado di misurarle», spiega Manoan. «L’auspicio è la creazione di un sistema informatizzato con cui un soggetto terzo possa monitorare l’efficienza organizzativa, anche in termini di tempi di erogazione delle prestazioni, e dare risposte adeguate ai cittadini». E nelle ultime settimane una mossa per combattere le lungaggini delle liste d’attesa è di fatto arrivata.
Limitare gli sprechi
Il piano straordinario vale fino a 600 milioni all’anno da replicare fino a fine legislatura. I fondi serviranno per pagare il lavoro di medici e infermieri, ma anche per acquistare dalle strutture private le prestazioni se gli ospedali pubblici non ce la faranno con le loro forze: i soldi saranno assegnati dal ministero della Salute direttamente alla singola Asl dove la coda per un esame radiologico o un ricovero è più lunga.
Per abbattere le lunghe attese si lavorerà anche all’unificazione delle agende delle prenotazioni degli ospedali pubblici e di quelli privati convenzionati, così i Cup potranno smistare le richieste dei cittadini lì dove c’è il posto. Oggi questa unificazione non è ancora a regime in molte parti d’Italia. Il piano prevede inoltre una strategia che guarda al lungo periodo in termini di risultati utili. Si tratta della cosiddetta «appropriatezza prescrittiva».
Oggi il personale medico, per quella che viene ormai definita “medicina difensiva” – un fronte sul quale il governo sta lavorando con la riforma della colpa medica – preferisce prescrivere un esame o una visita in più per tutelarsi, ma in diversi casi questa prestazione non è davvero necessaria per il paziente. Il problema è che questa iperprescrizione contribuisce a ingolfare il sistema sanitario e quindi ad allungare ancora di più le liste d’attesa. Da qui l’idea di affidare all’Istituto superiore di sanità il compito di mettere a punto linee guida sui percorsi di cura. Saranno indicate le prestazioni appropriate da prescrivere a cui i medici si dovranno adeguare per limitare gli sprechi.
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