- Basterebbe leggere i numeri per capire la criticità di un intero sistema. Di tutte le denunce all’autorità giudiziaria, il 43 per cento riguarda reati correlati a cannabis e derivati. «Queste persone non dovrebbero passare dalle carceri: è un problema di salute, non di sicurezza», spiega Scarciglia di Antigone.
- Il referendum sulla cannabis andrebbe a modificare proprio il Testo Unico: sia sul piano penale, sia su quello amministrativo.
- Le carceri piene sono il risultato più evidente di una politica che nei decenni ha sovrapposto consumatore, spacciatore e tossicodipendente. La “guerra contro la droga”, come diceva don Gallo, si traduce in guerra alle persone.
Basterebbe leggere i numeri per capire la criticità di un intero sistema. Da trent’anni oltre un terzo di tutti i detenuti, circa il 35 per cento, entra in carcere per reati collegati alla droga. Di tutte le denunce all’autorità giudiziaria, il 43 per cento riguarda reati correlati a cannabis e derivati, mentre le segnalazioni alle prefetture per detenzione di sostanze per uso personale, al 74 per cento sono per cannabis. Una montagna di fascicoli e procedimenti giudiziari, che si traducono nella metà dei casi in condanne e persone dietro le sbarre.
Problema sanitario
Non ci troviamo di fronte a grandi trafficanti che smuovono i mercati, ma a persone, spesso semplici consumatori, di cui molti con problemi di dipendenza (circa il 30 per cento di tutti i detenuti). «Abbiamo oltre 60mila persone recluse nelle galere. La maggior parte sono lì per aver violato il Testo Unico sugli stupefacenti. Tantissimi i tossicodipendenti, circa 15mila. Ma una fetta di grande popolazione carceraria riguarda l’art. 73», spiega Maria Pia Scarciglia di Antigone.
C’è da fare una distinzione importante quando si parla di reati sulle droghe: il 97 per cento delle condanne riguarda l’art. 73 del Testo Unico, sono i reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, mentre solo il 3 per cento quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74).
«Molti hanno precedenti: il carcere diventa una porta girevole, in cui si entra ed esce. Queste persone non dovrebbero passare dalle carceri: è un problema di salute, non di sicurezza», aggiunge Scarciglia. «Abbiamo una situazione sanitaria che non consente un diritto alla cura: nelle carceri bisognerebbe seguire un percorso psicologico, ma c’è penuria di personale sanitario e medico e gli obiettivi della riabilitazione falliscono», conclude Scarciglia.
Cambiare a livello legislativo sembra impossibile, il parlamento ha dimostrato immobilità, in passato come nel presente. Non c’è da stupirsi se in centinaia di migliaia, oltre un milione e 200mila per l’eutanasia legale, e oltre 600mila per la cannabis (raccolta firme che ora si sposterà nelle piazze fino al 31 ottobre), hanno firmato in presenza e online. Il referendum sulla cannabis andrebbe a modificare proprio il Testo Unico: sia sul piano penale, con la depenalizzazione delle condotte di coltivazione e detenzione illecita di qualsiasi sostanza e l’eliminazione della pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione della associazione finalizzata al traffico illecito; sia su quello amministrativo: il quesito propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità dei ciclomotori.
Sovraffollamento strutturale
Scorrendo il lungo elenco del ministero della Giustizia con gli istituti penitenziari il rapporto tra capienza e detenuti presenti è sempre a sfavore della prima. In fondo si conta un saldo di 50.931 posti a fronte di 61.230 detenuti (dati aggiornati al 2020). Una situazione che in alcuni casi vede un sovraffollamento grave: a Bologna nel carcere D’Amato sono confinati in 500 posti 891 detenuti, a Busto Arsizio 434 persone per 240 posti, a Brescia i detenuti sono 366 e i posti 189 e al Regina Coeli di Roma sono detenute 1.061 persone in 616 posti.
«Mettiamo in galera persone che non dovrebbero entrarci e, in relazione alla cannabis e alle droghe leggere, è evidente. Una sostanza che non ha effetti tali da avere una normativa così restrittiva: una fabbrica di reati e sovraffollamento, che impatta sulla vita delle persone in modo devastante e senza una ragione obiettiva», commenta Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa, con una lunga esperienza di visita nelle carceri italiane. «Quei luoghi sono una discarica sociale di tutto ciò che non riusciamo a risolvere, un serbatoio di marginalità. La risposta la devono dare i servizi sociali, lo stato, non il carcere: bisogna aumentare le misure alternative». Spazi ridotti, attività inesistenti o minime per via della mancanza di personale, una vita scomoda e complicata, dove spesso si replicano le dinamiche esterne.
Per gli stranieri tutto ciò è ancora più evidente: nel giro di due decenni i detenuti denunciati per reati droga-correlati sono passati dall’essere il 20 per cento fino al 33 per cento del totale. «Si può fare un parallelo: come per le droghe, anche per gli stranieri si fabbrica irregolarità attraverso norme sbagliate, che li rendono clandestini. Separarli dalla comunità è sbagliato e i numeri delle recidive lo confermano: se passi dal carcere, ci torni», conclude Capriccioli. Il tasso di recidiva è del 28 per cento per chi usufruisce di misure alternative, mentre arriva al 70 per cento per chi resta dietro le sbarre fino a fine pena.
«Il referendum sulla cannabis potrebbe avere un influsso positivo, ma c’è da chiedersi perché si finisce in carcere e non con altri tipi di sanzioni, soprattutto per reati di lieve entità, come per la cannabis. Ci vuole sempre una politica più strutturata di riflessione sulle droghe e c’è bisogno di un cambiamento culturale rispetto al consumo», commenta Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. La regione del nord Italia ospita i penitenziari più problematici: Monza ha un affollamento del 150 per cento, Como del 152,5 per cento, Bergamo arriva al 159 per cento, Canton Mombello a Brescia addirittura al 189 per cento.
Le carceri affollate sono costate all’Italia più di una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Celebre quella per il caso Torreggiani nel 2013 a danno di sette detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza, rinchiusi in celle di nove metri quadrati. La sentenza constatò che il sovraffollamento era da considerarsi strutturale.
Il fallimento del proibizionismo
Le carceri piene sono il risultato più evidente di una politica che nei decenni ha sovrapposto consumatore, spacciatore e tossicodipendente. La cosiddetta “war on drugs” degli Stati Uniti degli anni Settanta, Richard Nixon elesse l’abuso di droga il «nemico pubblico numero uno», iniziò ufficialmente nel 1961 con la Convenzione internazionale che ha sancito il proibizionismo di tutte le droghe, riconoscendo l’uso solo per finalità medico-scientifiche. Un approccio giunto indisturbato fino agli anni Novanta con il metodo San Patrignano, la comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli, e tradotto nella Iervolino-Vassalli, voluta da Bettino Craxi, rimasta fino a oggi.
La “guerra contro la droga”, come diceva don Gallo, si traduce in guerra alle persone. E nell’uso singolare del termine sta quanto di sbagliato è accaduto in Italia: è stata la Fini-Giovanardi nel 2006 a equiparare droghe leggere e pesanti cambiando le pene per la detenzione personale. Il risultato fu un aumento vertiginoso del numero dei detenuti, fino a 73mila, tra il 39 per cento e il 42 per cento per reati droga-correlati. Il pugno di ferro finì solo nel 2014 con l’illegittimità costituzionale e il ritorno alla Iervolino-Vassalli, che portò solo in un anno 5mila detenuti in meno.
«C’è un forte aspetto moralista della legge. Non posso analizzare la realtà con gli occhi dei morti di eroina e della diffusione dell’Hiv», spiega Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). «Trattare la sperimentazione e il consumo di qualsiasi droga attraverso la tossicodipendenza ha riempito le carceri. E fatto in modo che chi consuma incontri poliziotti o guardie carcerarie, anziché figure di tipo educativo».
Un trattamento assai diverso rispetto a quello riservato ad altre droghe come alcool e tabacco, che nella classifica di pericolosità si collocano ben al di sopra della cannabis. Per gli antiproibizionisti si deve puntare alla riduzione e non all’eliminazione e promuovere modelli moderati di consumo, per prevenire abusi. «Il proibizionismo in Italia costa venti miliardi di euro in mancate entrate per lo stato, rallenta la giustizia e sovraffolla le carceri», si legge nel Libro bianco sulle droghe, promosso tra le altre da Cnca, Associazione Luca Coscioni e Forum droghe.
Depenalizzare il consumo e separare la cannabis da altre sostanze più pericolose sarebbe un passo importante: «Quando si verifica un uso frequente di cannabis in età pre-adolescenziale e adolescenziale, in cui l’aspetto pericoloso non è nel danno fisico, ci interroghiamo sul perché di quell’uso, sul significato della frequenza. Il “ti salverò” non c’entra nulla», continua De Facci, che chiede la ripresa del fondo nazionale che finanzi gli operatori di strada nei quartieri e nelle scuole, e un piano di prevenzione nazionale che segua quello europeo.
«Il referendum è un passo importante per un ragionamento sull’amministrazione della giustizia, dalle forze dell’ordine ai tribunali. Si libererebbero le forze dell’ordine dalle incombenze dei pesci piccoli», analizza Marco Perduca senatore del Partito democratico. Secondo Meglio Legale, tra i promotori del referendum, sette volte su dieci, le forze dell’ordine arrestano anche in casi di lieve entità. La regolamentazione comporterebbe anche meno processi che contribuiscono a ingolfare i tribunali italiani.
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