Il sindaco sostenuto dalla destra rifiuta l’accoglienza. Il vescovo, invece, è con gli ultimi, che Meloni ignora. Viaggio nella città giuliana. Tra le mura abbandonate della struttura che accoglie centinaia di richiedenti asilo
Sono vivi. Respirano tra l’immondizia. Sono vivi, con i piedi rosicchiati dai ratti nascosti tra le tende. Sono del Bangladesh, del Pakistan, alcuni dell’Afghanistan. Sono più di duecento, ma meno di trecento. Sono i figli del Silos, l’immensa struttura abbandonata accanto alla stazione di Trieste, da anni riparo di migranti in attesa di una risposta per rimanere in Italia.
Il silos ormai da anni è abitato dai disperati della rotta balcanica che arrivano via terra, nonostante qui il trattato di Schengen sia stato sospeso nel 2023 e i controlli fortemente inaspriti. Una scelta del governo Meloni per contrastare l’accesso di possibili terroristi.
La luce non ha ancora fatto capolino. Sono le quattro e mezza del mattino. Gli unici a correre nella notte sono decine di topi che non hanno alcuna paura dell’uomo. Fuori dalle mura di questo edificio, pronto a piegarsi su se stesso, arrivano i primi operai delle Ferrovie dello Stato.
Babbul viene svegliato da un amico. Indossa le scarpe ai piedi. È in una posizione fetale. Si alza ed esce dalla tenda: «Dobbiamo andare in Questura a fare la richiesta», gli dice. Vacilla nel risveglio precario. Stira la schiena, e facendo sì con la testa si incammina con Tanvir in mezzo alla fango. Trieste è buia. Inizia la marcia verso la Questura. Sono le cinque del mattino e lungo la via iniziano ad aggiungersi altri migranti. Ridono, è la festa del documento, quando tutti sanno che andranno e otterranno un pezzo di carta che come unica risposta avrà: «Attendete».
Si mettono in fila. Babbul è qui da qualche giorno. Ha speso novemila dollari per arrivare in Italia. Ha due bambini e una moglie e il compito preciso di mandare dei soldi in una terra dilaniata dalle alluvioni e conosciuta per la sua premier Sheikh Hasina, appena riconfermata con un’affluenza alle urne bassissima, accusata dall’opposizione di sparizioni politiche ma osannata dai suoi come la donna che sta guidando il Bangladesh lungo la strada della prosperità.
Tanvir è pakistano. Terra appena uscita da una campagna elettorale attesa e contestata che da sempre ha nello sfondo l’eccezionale influenza dell’esercito in tutti i settori, dai media all’economia. Tanvir guarda sempre di lato: «Non c’è nulla qui per noi, nulla di quello che mi aspettavo». Perché sei venuto? «Mi avevano detto che se pagavo questa cifra mi davano un lavoro». Si avvicina un uomo, ha 36 anni: «Io ho un visto». Come hai un visto? «Sì, ho pagato tredicimila dollari in Bangladesh e mi hanno detto che una volta atterrato in Italia mi sarebbero venuti a prendere in aeroporto. Ma non è arrivato nessuno». Chiediamo di vedere il passaporto. Il visto italiano, eccolo. Scadenza: agosto 2024. Carta straccia che gli permette di stare qui regolarmente, ma non gli dà la possibilità di lavorare.
Si affollano e si ascoltano. Domandano. La polizia alle sette e trenta apre i cancelli. Si mettono in fila ordinati. Cala un silenzio rispettoso. Il sole inizia a farsi largo. Un poliziotto esce e chiede i documenti anche a noi. «Potete stare ma non entrare, e soprattutto dovete stare attenti ai nostri volti. Non vogliamo che vengano visti da nessuna parte», lo dice in tono conciliante.
Le sbarre del cancello ci dividono dai migranti. Vengono fatti sedere su delle sedie e chiamati uno a uno. Un poliziotto esce e parla senza dire il nome: «Noi facciamo il nostro dovere, ma qui non c’è volontà». Volontà per cosa? «Non è normale che delle persone vivano così, ma la struttura è privata. Non possiamo sgomberare nessuno». E allora? «Volontà politica», dice.
La meccanica dei controlli
Sono le otto e mezza. Nel Silos sono partiti i controlli settimanali. Ogni mercoledì, solitamente, agenti, finanza e carabinieri parcheggiano le camionette fuori. I topi sono nascosti nelle tane. I migranti sono in fila con i piedi piantati a terra e il loro foglietto in mano che mostrano diligentemente. Contano una ad una le persone e le segnano in un foglietto. Sembra un censimento, mentre i cani della finanza si infilano nelle tende in cerca di droga. Non viene trovato niente.
Chi è senza foglio viene portato in Questura. Gli altri tornano nelle tende.
C’è chi cucina su un fuoco acceso con la legna che si procura in giro. Il silos ha due piani. Il piano terra è sempre bagnato, l’acqua filtra ovunque e in ogni tenda dormono all’incirca tre o quattro persone. C’è una parte, sempre a pian terreno, destinata a donne e bambini. Ma oggi non ci sono. Loro sono riusciti ad ottenere un letto entrando nel sistema di accoglienza. Al secondo piano si accede abbassando la testa e passando per un piccolo buco. Due rampe di scale e si arriva in una zona aperta dove dormono all’incirca una cinquantina di migranti. Se non tira la bora e non piove è la suite del Silos perché la terra è asciutta e la notte il corpo non si irrigidisce con il gelo.
Hasan era qui cinque mesi fa. Lo vedo indaffarato a cucinare un po’ di riso bianco in un pentolone lercio: «Non capisco cosa devo fare». Mi passa il foglio e leggo. «Hasan ma tu sai cosa c’è scritto qui?». Guarda il foglio: «No, me lo puoi spiegare». La dicitura è semplice: luogo e orario in cui presentarsi in Questura a Gorizia. Peccato che sia solo in italiano.
Gli chiedo se qualcuno gli abbia tradotto ciò che c’è scritto: «No», risponde. Non si capisce se sia vero o meno, ma tutti gli altri si mettono in fila e pretendono lo stesso servizio di traduzione.
A Trieste ci sono le associazioni che si occupano di loro. Il centro diurno di via Padova è uno stanzone dove ricaricano il telefono, si riscaldano per qualche ora, si fanno visitare dai medici e chiedono aiuto.
Sono tanti e ammassati. I medici sono tre e fanno entrare uno alla volta. Danno medicinali, tengono il conteggio delle visite passate. «Il Sindaco potrebbe fare qualcosa, è un problema di igiene pubblica», dice uno dei dottori.
Patrioti contro gli ultimi
Roberto Dipiazza è al suo quarto mandato. Qui nel 2021 per la sua campagna elettorale arrivarono Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Erano i giorni dell’attacco alla Cgil, delle proteste No Vax capeggiate, proprio qua, a Trieste, da Stefano Puzzer, fenomeno eclissato in un batter di mani.
Da questo sindaco le uniche parole pronunciate sono state: «Non possiamo accogliere tutti» seguite da un «è un’invasione per colpa dell’Europa che vuole far sfigurare Meloni». Per il resto immobilismo. Il 2 febbraio 2023 ha fatto il suo arrivo in città il vescovo Enrico Trevisi. Tra le prime azioni compiute una visita al Silos con una dichiarata propensione agli ultimi. Niente di strano, verrebbe da pensare, e in linea con i precetti cattolici, ma si sa, non c’è lingua più maligna dei propri concittadini. Ed è così che per le vie della città si è sparsa la voce che vi sia una guerra di nervi tra Curia e Comune, culminata con le festività natalizie. Tradizione vuole che i primi banchi davanti all’altare di San Giusto vengano lasciati vuoti per le autorità.
La messa è andata deserta. Nessuno politico si è presentato, sindaco compreso, con una chiesa gremita e un’omelia, quella del vescovo Trevisi, che ha risuonato tra le panche: «Siamo chiamati a schierarci per i piccoli, i vulnerabili, per gli scarti». Chiedendo: «Un sussulto di dignità». Il sindaco ha detto di aver avuto un altro impegno e che la «politica fa il suo lavoro e il Vescovo il suo», quando fino a poco tempo fa aveva urlato «io per loro non farò niente», riferendosi ai migranti.
Era presente invece Dipiazza quando la presidente del Consiglio è arrivata a Trieste per la commemorazione della Foibe. Nel comunicato si leggeva «presso il binario 1 della stazione Centrale la cerimonia di inaugurazione del Treno del Ricordo».
Hanno tutti esultato, visto che il treno sarebbe stato a vista silos e Meloni avrebbe potuto chiedere cosa fosse quella struttura fatiscente dalla quale escono costantemente umani e topi. Il treno del ricordo è stato spostato al binario 2 al suo fianco, chissà perché, c’era un altro convoglio che copriva la vista dell’edificio. Invisibile, come sempre.
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