La linea del rigore è un arabesco. Serve parafrasare Ennio Flaiano per cogliere il senso della follia tecnologica in cui il calcio è sprofondato in questo inizio di stagione. Si viaggia a una media di 4,6 calci di rigore a giornata, che significa 0,46 a partita. Quando prendete posto sugli spalti o davanti alla tv, sapete già che vi aspetta una media di 7-8 minuti di recupero e mezzo calcio di rigore. Chi si becca quello intero? Siete sul campo giusto?

Si tratta di cifre monstre accompagnate da un retropensiero: immaginavamo che fossero anche più alte. Perché vedendo quello che succede ogni fine settimana nel campionato di Serie A, e le dinamiche del contatto fra corpi che portano alla concessione del tiro dal dischetto, potrebbe starci anche una media di due rigori a partita. Del resto, è proprio in Italia che la situazione è sfuggita al controllo. Il confronto con le altre principali leghe europee dice che nel nostro campionato si fischia in modo incontinente: 32 rigori in 70 partite.

La Bundesliga tedesca e la Ligue 1 francese si piazzano poco dietro con una media di 0,42 rigori a partita, ma lo scarto diventa eclatante se si guarda alla Liga spagnola, dove la media è di 3,7 rigori a giornata, e alla Premier inglese dove la media è addirittura di 1,7 rigori a giornata. Ciò significa che in Serie A viene concesso un numero di calci di rigori quasi triplo rispetto a quello del massimo campionato inglese.

Il VAR rabdomante

Ma allora, come si vive a queste latitudini da triplicatori di tiri dal dischetto? Rispondiamo che per dare una risposta bisognerà ripassare più avanti. Siamo in fase di adattamento. Di più: è mutazione genetica.

Cambia il calcio. E cambiamo noi, che ne siamo spettatori e ancora non abbiamo capito se dobbiamo credere a ciò che vediamo. Dobbiamo fidarci o è stato soltanto un gioco di illusioni? Sarà mica che siamo scaraventati dentro un deepfake, oggetti inconsapevoli di un esperimento di demenza artificiale? Qui sta il punto. Il regolamento cambia e si fa giustizialista verso ogni contatto appena scomposto, con inflazione di punizioni minime e massime. Ma c’è pure che certi rigori non li avremmo nemmeno pensati.

L’apice si è toccato due settimane fa allo stadio Artemio Franchi, palcoscenico che nelle ultime due partite di campionato si è trasformato in un laboratorio del rigore creativo (ben cinque, di cui tre sbagliati). Si giocava Fiorentina-Lazio e il rigore che ha consentito alla squadra viola di prendersi la vittoria era stato visto da nessuno. Ma proprio nessuno, sia fra quanti la guardavano in tv che fra quanti erano presenti allo stadio.

Forse nemmeno i due calciatori protagonisti dell’azione si sono resi conto che quella, per il regolamento attuale, è una circostanza passibile di tiro dal dischetto. Dodò della Fiorentina arriva a fondo campo e crossa, Nuno Tavares della Lazio è un po’ troppo esuberante (del resto, è il suo pregio principale quando c’è da trascinare in avanti la squadra) e gli piazza un pestone sul collo del piede. Il cross di Dodò non sortisce effetto e l’azione pare finita lì, mentre il brasiliano si rotola per il dolore oltre la linea di fondo. Ma la fase di sospensione che segue fa capire che qualcosa è successo.

Del resto, ormai si è fatta l’abitudine a questi momenti da X Files, sottotitolo: The truth is out there. Sì, la verità sta sempre lì fuori. In un punto dell’iperspazio che si chiama Lissone, nome che ha un’onomatopea dell’Assoluto, intimidatoria quasi quanto “Tar del Lazio”. E in effetti c’è qualcosa d’immenso, panottico, nella capacità rabdomantica con cui vengono individuati falli come quello di Nuno Tavares su Dodò. Che per regolamento è assolutamente rigore, ma chi mai avrebbe osato pensarlo? Eccola qui la questione: i rigori del Deus ex Machina, calati da distanza siderale al termine di un procedimento esoterico. Era sotto gli occhi di tutti voi ma non ve ne siete accorti. Vieni su da quella botola nel prato, David Copperfield!

Big foot-ball

La formula magica è step on foot, il vecchio pestone che un tempo passava via senza tante lamentele. Il calcio è uno sport di contatto fisico. Gioco maschio, si diceva in epoca pre-gender. Ma poi è giunta l’epoca della metrosexualizzazione, di un’estetica un po’ blasé dove anche soltanto spettinarsi in campo è segno di disordine e il contatto fisico è sottoposto a stretta sorveglianza.

Chi azzarda il tackle scivolato sa già che, nove su dieci, si macchia la fedina di gara e magari rischia di terminarla anzitempo. Del resto, si vuole sempre più gol: e dunque, quale soluzione migliore che quella di concedere più rigori? Sempre meglio che allargare le porte. Ecco che allora il vecchio pestone diventa gesto da matita blu. In area di rigore, poi, non se ne perdona uno. E come fai a difenderti dal rischio di mollare un pestone? Torna alla mente il passaggio di qualche anno fa, quando si è data un’interpretazione repressiva sui falli di mano in area.

L’effetto è stato assistere regolarmente alla scena di difensori che si oppongono al crossatore-tiratore serrando le braccia dietro la schiena, in ostentazione della presunzione d’innocenza. Ok, ma come fai a escogitare un gesto analogo per scongiurare l’incombere dello step on foot? Ti lanci a corpo morto, ma sempre con le braccia serrate dietro la schiena? Ti sdrai per terra come se fosse fare sempre il coccodrillo dietro la barriera? Adotti la tattica corporale di appiccicarti all’avversario come si trattasse di ballare 90 minuti di lambada? Niente da fare, non c’è rimedio.

Tanto più che, se si rovescia la prospettiva, nel mercato degli attaccanti andrà a svilupparsi l’apprezzamento per un atout fin qui passato inosservato: indossare calzature dal 44 in su. Chi l’avrebbe mai detto che disporre del piedone diventasse risorsa così preziosa? Spazio vitale rosicchiato alla mobilità dell’avversario, pinne calpestabili in cerca di rigori preterintenzionali. E vabbe’, ci si rimetterà un paio di unghie d’alluce; ma vuoi mettere, se sull’altro piatto della bilancia ci sono quei tre-quattro rigori a campionato lucrati per il solo aver messo piede (nel vero senso della parola) in area di rigore?

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Lo slittamento semantico del duello

Contro il principio dello step on foot si levano adesso le lamentele generali. Prendiamo atto e stiamo a vedere se si farà un passettino indietro (se è lecito dirla così).

Nel frattempo registriamo quanto il calcio di rigore si sia fatto destabilizzante. Non soltanto nel momento della sua assegnazione, ma anche in quello che precede la sua esecuzione. Sempre più di frequente diventa il momento in cui fra compagni di squadra ci si litiga il pallone, in applicazione di una fiera disobbedienza delle gerarchie fissate dalla panchina. Così tanti rigori e deve tirarli sempre lo stesso calciatore, che diamine! Facciamo turnover anche qui, no?

Pare tutto uno slittamento semantico. Il momento del calcio di rigore è sempre stato fatidico. La cosa più prossima al duello western che si possa realizzare su un campo di calcio, materiale per lunghe opere di introspezione psicologia alla Peter Handke. E invece adesso, “prima del calcio di rigore”, si assiste allo show di bambini viziati. «Questo è mio, altrimenti mi porto via il pallone»; «E no, il fallo lo hanno fatto su di me quindi il rigore l’ho portato io». Una sitcom, ma di quelle sciatte. Tanto poi il portiere para e restituisce il senso di giustizia.

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