- Secondo alcuni documenti interni ritrovati nel 2018, la Shell, almeno dagli anni ‘80, aveva una profonda comprensione della scienza del clima e dei rischi del riscaldamento globale causato dalle emissioni di combustibili fossili.
- La compagnia è tra i maggiori emettitori mondiali e, storicamente, ha svolto un ruolo significativo nella campagna di disinformazione sul clima.
- L’azienda riconosce pubblicamente i rischi del cambiamento climatico ma agisce “dietro le quinte” per ostacolare la regolamentazione al settore fossile.
«Si ritiene che l’anidride carbonica prodotta dall’uomo, rilasciata e accumulata nell’atmosfera, riscaldi la Terra attraverso il cosiddetto effetto serra». Questa affermazione appartiene a un documento pubblicato nel maggio del 1988 sulla base dei risultati di uno studio terminato circa due anni prima, nel 1986.
«Con la combustione di carburanti fossili, che consiste nella principale fonte di Co2 nell’atmosfera, un approccio lungimirante da parte dell’industria energetica è chiaramente auspicabile». Il documento non era un documento qualsiasi. Era stato compilato da una divisione scientifica per il comitato di conservazione ambientale di una compagnia di combustibili fossili: la Shell.
Il documento è stato ritrovato nel 2018 dal giornalista Jelmer Mommers e pubblicato in un articolo sulla testata olandese De Correspondent a dimostrazione che la Shell, così come la Exxon, almeno dagli anni ‘80, aveva una profonda comprensione della scienza del clima e dei rischi del riscaldamento globale causato dalle emissioni di combustibili fossili.
Non solo. La Shell sapeva anche che bisognava agire il prima possibile: «Le implicazioni potenziali per il mondo sono, tuttavia, così grandi che le opzioni politiche devono essere considerate molto prima. E l’industria energetica deve considerare come fare la sua parte».
Altrimenti, dichiarava il team di esperti della compagnia, «potrebbe essere troppo tardi per prendere contromisure efficaci per ridurre gli effetti o addirittura per stabilizzare la situazione».
Secondo una tabella nel documento del 1988, la Shell consumava e vendeva combustibili fossili che rappresentavano il 4 per cento della produzione di Co2 emessa in tutto il mondo nel 1984.
Nel 1995 il gruppo Shell aveva iniziato alcuni studi di pianificazione per lo sviluppo di diversi scenari nei decenni successivi. Chiamati Tina – acronomimo di “There is no alternative”, “Non c’è alternativa” – gli scenari anticipavano i cambiamenti nel consumo di energia, nella tecnologia, nella coesione sociale e nei mercati.
“Ambientalisti vigilanti”
Tra questi, in un documento del 1998, la Shell aveva previsto una «serie di violente tempeste» che avrebbero colpito la costa orientale degli Stati Uniti intorno al 2010. «In seguito alle tempeste», scrivevano gli esperti, «una coalizione di ong ambientaliste presenterà una class-action contro il governo degli Stati Uniti e le compagnie di combustibili fossili con la motivazione di aver trascurato ciò che gli scienziati (compresi i loro) hanno detto per anni: che qualcosa deve essere fatto».
Lo scenario continuava descrivendo «una reazione sociale all’uso dei combustibili fossili» per cui «gli individui diventeranno “ambientalisti vigilanti” nello stesso modo in cui, una generazione prima, erano diventati ferocemente anti tabacco» e «i giovani consumatori, soprattutto, chiederanno azione».
Lo scenario previsto non si sbagliava di molto. Nel 2012, la tempesta Sandy ha devastato la costa orientale degli Usa, uccidendo almeno 147 persone e causando più di 70 miliardi di dollari di danni economici.
Recentemente, il sindaco di New York Bill de Blasio ha citato in giudizio Shell e altre grandi compagnie petrolifere. Anche altri stati americani e nazioni hanno iniziato azioni legali contro la compagnia.
Il 26 maggio di quest’anno, in una sentenza storica, una corte olandese ha imposto a Shell di tagliare le proprie emissioni del 45 per cento entro il 2030 in linea con gli accordi di Parigi. È stata la prima volta che un tribunale ha ordinato a una compagnia fossile una riduzione delle emissioni in linea con obiettivi climatici internazionali.
E, anche se potrebbe essere capovolta in appello, la sentenza resta un passo importante per la climate litigation a livello mondiale. Secondo Larisa Alwin, il giudice olandese che ha presieduto la causa Shell, «le aziende hanno una responsabilità indipendente, al di là di quello che fanno gli stati. Anche se gli stati non fanno nulla le aziende hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani».
Come la Russia
Come riferisce Bloomberg, le emissioni totali di gas serra di Shell solo nel 2019, per esempio, sono state di 1,65 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, circa le stesse della Russia, il quarto inquinatore mondiale.
La compagnia non solo inquina ma, storicamente, ha svolto un ruolo significativo nella campagna di disinformazione sul clima. Negli anni ’80, la Shell riconosceva l’esistenza del riscaldamento globale antropogenico e, quindi, la responsabilità dell’attività umana nei cambiamenti climatici.
Tuttavia, man mano che il consenso scientifico diventava sempre più chiaro, le pressioni per un’azione politica di regolamentazione delle emissioni aumentavano e le conseguenze sul business as usual dell’azienda diventavano sempre più chiare, la compagnia ha iniziato a seminare dubbi sulla scienza del clima e ad agire per ostacolare le politiche climatiche.
Rispetto alla linea Exxon la narrazione di Shell è più confusa. Durante gli anni ’90, la compagnia è stata costretta a riconoscere la portata globale della crisi ma ha continuato a evidenziare le incertezze scientifiche del fenomeno.
Un filmato prodotto dalla Shell nel 1991 dal titolo “Climate of concern”, dichiarava che «aspettare una prova schiacciante sarebbe irresponsabile». Ma un documento del 1994, che non era contrassegnato come confidenziale, si concentrava sugli argomenti dei negazionisti del clima e metteva in discussione i modelli climatici.
Questo schema di accettazione e negazionismo è stato riprodotto per tutto il decennio e successivamente. In generale, dunque, l’azienda riconosceva pubblicamente i rischi del cambiamento climatico, ma sottolineava l’incertezza scientifica al fine di fare pressioni “dietro le quinte” per ostacolare la regolamentazione al settore fossile.
La Global climate coalition
Negli anni ‘90, mentre i leader mondiali stavano elaborando alcuni dei primi accordi internazionali sul clima, Shell si è unita alla Global climate coalition (Gcc), un gruppo industriale creato per ostacolare l’azione politica sul clima che ha condotto una campagna negazionista molto aggressiva.
La Gcc si è sciolta nel 2002 perché alcune aziende, ad esempio Shell e Bp, che fino a quel momento l’avevano sostenuta, hanno dovuto lasciare la coalizione di fronte alle crescenti prove scientifiche sui cambiamenti climatici.
Shell ha anche fatto parte dell’American legislative exchange council (ALEC), un’organizzazione americana finanziata quasi interamente da aziende e progettata per fare pressione politica e favorire il loro business. Shell ha revocato la sua adesione a causa della posizione negazionista dell’organizzazione sulla scienza del clima.
Come per altri casi che riguardano gli attori della macchina negazionista climatica, il lobbying di Shell si concentra soprattutto sui finanziamenti. Un rapporto Influence Map del 2019 ha scoperto che le cinque maggiori compagnie di petrolio e del gas quotate in Borsa, tra cui Shell, hanno investito oltre un miliardo di dollari di fondi degli azionisti nei tre anni successivi all’accordo di Parigi in attività di «branding e lobbying ingannevoli sul clima».
Strategie comunicative
Secondo il rapporto, Shell spende centinaia di milioni di dollari ogni anno in strategie comunicative per influenzare il pubblico su queste tematiche. Allo stesso tempo, sta anche facendo lobbying per controllare, ritardare o bloccare le regolamentazioni sul clima a livello globale.
In particolare, Shell ha sostenuto l’American petroleum institute (Api), la più grande associazione commerciale americana per l’industria del petrolio e del gas.
L’Api rappresenta oltre 600 aziende (tra cui Shell) ed è stata una delle prime associazioni commerciali a orchestrare campagne di disinformazione e negazionismo sul clima.
Ha speso oltre 98 milioni di dollari in attività di lobbying dal 1998. E, proprio come Shell, sapeva del legame tra l’attività fossile e l’aumento delle emissioni almeno dal 1980.
Durante un’audizione davanti al Congresso americano il 28 ottobre 2021, la presidente di Shell, Gretchen Watkins, di fronte alla richiesta del presidente della sottocommissione di controllo della Camera sull’ambiente di abbandonare l’Api, ha dichiarato: «Quello che mi impegno a fare è continuare a essere un membro attivo dell’Api».
Durante la sua testimonianza Watkins ha ribadito che Shell riconosce il cambiamento climatico come «una sfida per il mondo intero» ma non ha dimostrato di volersi impegnare in maniera concreta per interrompere gli sforzi negazionisti dell’azienda come il lobbying o i finanziamenti.
Sembra, dunque, che la linea volutamente confusa della compagnia, impostata negli anni ’90, continui ancora oggi.
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