- Un frigo bianco sopra il quale ci sono tre saliere e un orologio da uomo con cassa bianca e cinturino marrone chiaro. Domani pubblica per la prima volta la foto che diventa un interrogativo per gli inquirenti.
- Di chi era quell’orologio maschile ritrovato nell’appartamento di Rita Atria dopo la sua morte?
- È una delle domande contenute nell’esposto presentato dall’avvocato Goffredo D’Antona alla procura di Roma nel quale si chiede la riapertura del caso. Fu un suicidio o qualcuno voleva morta la giovane testimone di giustizia?
Un frigo bianco sopra il quale ci sono tre saliere e un orologio da uomo. Domani pubblica per la prima volta la foto. Di chi era quell’orologio maschile ritrovato nell’appartamento di Rita Atria dopo la sua morte e non repertato? È una delle domande nell’esposto presentato dall’avvocato Goffredo D’Antona alla procura di Roma nel quale si chiede la riapertura del caso. Fu un suicidio o qualcuno voleva morta la giovane testimone di giustizia?
Borsellino e Rita Atria
La scia di sangue della stagione stragista del 1992 non si ferma a Palermo, dove Cosa Nostra uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e le scorte dei due giudici, ma arriva a Roma. In zona Furio Camillo, via Amelia 23: viene trovato in una pozza di sangue il corpo di una minorenne. Si chiama Ritra Atria, è il 26 luglio 1992, una settimana dopo la strage di via D’Amelio.
L’indagine viene archiviata su richiesta della procura di Roma. Rita si è suicidata lanciandosi dal balcone, non ha sopportato l’uccisione di Borsellino che l’aveva aiutata nel suo percorso di denuncia dei mafiosi di Partanna.
La malavita le uccide padre e fratello, ma lei si fida dello Stato, si fida di Paolo Borsellino, procuratore capo a Marsala e parla. Così farà anche la cognata Piera Aiello. Diventano testimoni di giustizia. La vita di Rita, però, si spegne subito. Ma si è davvero suicidata?
A distanza di 30 anni, la sorella, Anna Maria Rita, e l’associazione dedicata a Rita Atria si sono rivolte all’avvocato D’Antona per riaprire il caso. L’attivista Nadia Furnari, l’operatrice dell’informazione Graziella Proto e la giornalista Giovanna Cucè hanno scritto un libro Io sono Rita (Marotta&Cafiero), dal quale prende spunto l’esposto condiviso con la sorella di Atria.
Le anomalie nell’indagine
Nel documento di 13 pagine si ripercorrono le anomalie dell’indagine che si è chiusa con una richiesta di archiviazione e con il pubblico ministero che riferiva di un suicidio «dal quale non emergono responsabilità (penali) di terzi». Con quelle due parentesi tonde, si legge nell’esposto, «il pubblico ministero sembra quasi voler dire che ci sono delle responsabilità in questa morte, ma che non assumerebbero valenza penale. Andavano comunque valutate».
Nel luglio del 1992 Rita era minorenne, viveva in casa da sola, il tribunale dei minori di Palermo l’aveva affidata all’Alto commissariato per la lotta alla mafia. «Sono certa che mi troveranno», scriveva nel suo diario. Il primo punto che viene sollevato dall’avvocato è relativo al tasso alcolemico trovato nel sangue di Rita: 0,38 per cento. Per il consulente del pubblico ministero non comportava alterazioni, ma in una ragazza di 17 anni resta un livello considerevole. In ogni caso l’accertamento «per verificare la presenza di alcol e di barbiturici nel corpo di Rita è stato fatto nel settembre del 1992». Rita è quindi morta quando «era in uno stato di ubriachezza».
Ma nella sua casa, stando ai verbali, non è stata trovata alcuna bottiglia tranne una riposta ordinatamente in un armadietto «sulla quale non è stata trovata alcuna impronta». Non solo, nell’esame tossicologico la consulente ha cercato nel corpo della ragazza tracce di Tavor, ma in nessuna relazione o verbale si evidenzia il ritrovamento dell’ansiolitico.
Impronte e domande
In casa è stata ritrovata solo un’impronta digitale palmare sul davanzale della finestra. Ma in sede di autopsia, continua l’esposto, «il medico legale non “prende” le impronte di Rita, non preleva i capelli per l’esame tossicologico, non verifica se sotto le unghie ci fosse materiale utilizzabile per le indagini, perché?».
Ci sono altre anomalie, a partire dalla presenza di un agente della polizia di stato del quale riferisce la relazione dei carabinieri. Chi era e cosa ci faceva lì? E poi c’è il doppio sequestro dell’appartamento disposto dagli inquirenti a distanza di poche ore. Per i familiari e per l’associazione, bisogna continuare a indagare per verificare, anche in caso di suicidio, l’eventuale responsabilità di terzi.
Bisogna controllare i documenti ritrovati nell’appartamento: appunti relativi alla cosca Accardo che minacciava Rita, un bigliettino, un numero di telefono, la carta di identità di Rita che risultava smarrita e che comunque non avrebbe dovuto possedere visto che ai testimoni vengono cambiate le generalità per motivi di sicurezza. «Pubblici ufficiali e articoli di giornali riferiscono di scritte sui muri, ma in tre sopralluoghi dei carabinieri non sono state rinvenute queste scritte. Sembra quasi che qualcuno abbia voluto aggiungerle per avvalorare la tesi del suicidio», dice l’avvocato D’Antona. L’esposto si conclude con la richiesta di riesumare la salma di Rita per cercare elementi utili, ma soprattutto spiegare come è morta la “settima” vittima di via D’Amelio.
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