All'età in cui i bambini sognano di giocare in serie A Roberto Scarnecchia sognava di fare lo chef. Poi ha giocato in serie A. E ora è uno chef stellato. Non ha più i capelli ricci e lunghi, indossa una divisa un po' più formale, ma anche nel secondo tempo della sua vita sorride, quando capisce che deve raccontare tutte le sfumature di sé: «Avevo due passioni, le ho seguite entrambe».

Ha solo dovuto dividere in due i momenti in modo naturale, senza disperdere il talento per una cosa e per l'altra. Può accadere, perché il calcio ti spreme subito e ti libera presto e hai ancora molta vita davanti per poter immaginare un'altra carriera.

IL FRIGORIFERO DI MAMMA E IL CALCIO

Lo Scarnecchia calciatore è stato un'ala molto veloce, per alcuni la più veloce, dal dribbling bruciante e con una buona dose di creatività. Messa al servizio della Roma, soprattutto. La Roma di Nils Liedholm, il suo mentore, e Agostino Di Bartolomei, quella di Falcao, quella che costruiva le basi per lo scudetto del 1986 (a cui pure lui ha preso parte, per metà stagione).

E poi anche al servizio del Napoli, del Milan, del Pisa: oltre cento partite in serie A, una considerevole schiera di ammiratori. Lo chiamavano Speedy Gonzales, non c'è nemmeno da indovinare il perché. Ma anche Cavallo Pazzo, però questo solo a Roma, sempre per le sgroppate, e pure un po' per la chioma. Ci è arrivato, in serie A, e c'è stato bene. Ma non l'ha mai inseguita ossessivamente.

Lo racconta: «Prima ho iniziato a cucinare, poi a giocare. La mia passione per la cucina nasce, infatti, quando avevo sette, forse otto anni, guardando mia madre. Ero curioso, mi attirava tutto: salivo sulla sedia per aiutarla, guardavo il frigorifero come un luogo enorme e misterioso. Mi piacevano i colori: il rosso della carne e dei pomodori, il bianco dei fior di latte. Poi, verso i tredici, quattordici anni, ho iniziato a giocare a calcio in modo più convinto e sono arrivato fino alla serie A».

Il suo modo di intendere il pallone è stato assai leggero: mai troppo sul serio, solo come un gioco divertentissimo per adulti.

Nemmeno quando giocava, però, Scarnecchia abbandonava i fornelli. Cucinava nel tempo libero, a volte anche durante i ritiri delle su squadra, per tutti. Oppure, in ogni periodo della stagione calcistica, si creavano piccole processioni per “andare a mangiare da Roberto”.

«Pruzzo e Ancelotti – racconta - venivano spesso, Carlo ha passato anche un Natale e un capodanno a casa mia. Ma anche Tassotti, Franco Baresi, solo per citarne alcuni». La chiave è non viverli mai come due mondi separati: continuare a vedere il campo con gli occhi da bambino, ma anche il frigorifero con lo stesso sguardo: «Per me calcio e cucina non si sono divisi mai. Basta pensare a una cosa banale: a quando si mangia prima di andare a una partita, a quando si va a mangiare insieme dopo una partita, a quando si vede una partita a casa e, durante, si mangia».

È proprio senza mai dividerli, che Scarncchia, è riuscito a realizzare due sogni. Anzi, tre: perché tolte le scarpette ha pure allenato tra i dilettanti. Nemmeno a quello rinuncerebbe, dice: «Se mi chiama qualcuno, riprendo pure ad allenare. Riesco a gestire il tempo. E credo, ancora, che ci siano molti punti in comune tra tutte le cose che faccio».

DOPO LA FASCIA, I FORNELLI

Ma il passaggio chiave della sua vita è quello dopo il ritiro dai campi. Prima inizia ad aiutare il padre, che nel frattempo ha aperto un piccolo ristorante, poi parte per gli Stati Uniti, studia, insegna, e fa quattro master ad Harward, uno dei quattro in Science Cooking.

Torna da Executive Chef e da lì la sua nuova carriera inizia a decollare, fino ad arrivare in un ristorante stellato di Carpeneto, in provincia di Alessandria, nel 2012, ma anche molti altri incarichi di rilievo. Infine, Roma: dove ora, a 64 anni, ha due ristoranti, uno vicino alla Fontana di Trevi, un altro all'Eur, di cui è proprietario e executive chef.

E non è detto che si fermi qui, perché non sa stare fermo come non stava fermo in campo, anche se non lo dice. Preferisce dare altri spunti alla passione: «Seguo ogni passaggio della preparazione dei piatti, faccio personalmente la spesa per avere il controllo sulla qualità di ciò che viene comprato e che cuciniamo. Mi piace innovare, creare piatti nuovi».

Ad esempio: crostino al forno con provola affumicata, salmone affumicato e citronette, una serie di contrasti che si tengono insieme. «Se in campo mi sento simile, con le dovute proporzioni, a Salah, Leao e Gervinho, per la corsa, il dribbling secco e altre caratteristiche, come cuoco, invece, mi somiglia caratterialmente Gordon Ramsey, perché siamo entrambi persone sempre con il sorriso, ma assai determinate, e ho la stessa passione per i piatti inventati di René Redzepi. Sì, credo che i piatti vadano inventati, che uno chef debba arricchire il piatto mettendoci del suo, e credo sia quello che fa la differenza».

LA RICETTA DI HAALAND

Si può vivere in campo e in cucina allo stesso modo? Dice Scarnecchia di sì: «Se sei il cuoco, sei come un giocatore, ma sei ai fornelli invece che in campo. Se sei chef, sei l'allenatore, perché prepari il menu del giorno, fai la spesa, schieri i cuochi, metti tutti in condizione di cucinare. Insomma, prepari la partita. Poi c'è tutta la fase preparatoria che inizia dal mattino, che altro non è che l'allenamento. E poi una cena o un pranzo da preparare per una sessantina di persone richiedono concentrazione massima e adrenalina per un'ora e mezza, che è il tempo di una partita».

Mancherebbe solo il pubblico, ma forse no: «Il pubblico è chi mangia, non numeroso come quello di uno stadio, ma ugualmente esigente. Una volta ho cucinato per trecento russi e mi hanno chiesto di uscire per una specie di ovazione. Conoscevo quelle emozioni lì. Solo il gol che ho fatto al derby di Milano con il Milan non ha paragoni».

Il resto, invece, sì. Persino quando si parla dei calciatori attuali, l'argomento finisce per essere il cibo: «Credo che il più forte in questo momento sia Haaland, un giocatore apparentemente semplice, con il viso da bravo ragazzo, eppure così forte, spietato, prezioso. Che ricetta sarebbe? Ora ve la dico», e parte immaginando sul momento un carpaccio di ricciola e una serie lunghissima di ingredienti tra cui il tartufo bianco di Alba: «Perché, appunto, tiene insieme la semplicità della ricciola con il valore altissimo del tartufo».

Ed è tutto un parallelo. Perché, in fondo, i cross dell'ala e i piatti dello chef hanno una parola che li tiene definitivamente insieme: vengono serviti.

© Riproduzione riservata