Uno si è messo a vendere i panini e incontra nuovi amici, l’altro è tornato a fare affari a modo suo, alcuni ne sono usciti puliti mentre chi li indagava è finito a sua volta in un’indagine dal sapore della resa dei conti. Roma, dieci anni dopo l’inchiesta denominata Mafia Capitale, è tutta in questa frase che riassume l’esito dell’indagine contro il crimine organizzato, poi picconata in sede giudiziaria e ribattezzata più bonariamente «mazzetta capitale».

Era il due dicembre 2014 quando la città si svegliò con un tam-tam sulla retata che stava mettendo a nudo Roma, travolgendo politica, burocrazia e malavita. Decine di indagati, arrestati, e il video trasmesso a ogni ora da tg e notiziari che ritraeva Massimo Carminati, fermato dai carabinieri del Ros, il raggruppamento operativo speciale, a bordo della sua Smart.

La città

Roma travolta dallo scandalo, gli occhi del mondo sull’Italia e il rischio di scioglimento per mafia del Comune, poi ridimensionato, con interpretazione originale della legge, al più morbido azzeramento del solo municipio di Ostia. E oggi? Coperta dai soldi del Pnrr e dell’anno santo, Roma presenta uno schema rodato: un sistema corruttivo diffuso, mafie autoctone e di importazione che si servono di spalloni, professionisti per riciclare la valanga di soldi della droga nella città snodo del narcotraffico.

Ed è la droga, la cocaina prevalentemente, a generare delitti di ogni tipo: sequestri lampo, ferimenti, omicidi, faide tra bande e connivenze con professionisti per detenzioni accomodanti e spiate sulle indagini. C’è di più. Nelle importazioni dell’oro bianco anche alcuni imprenditori si divertono a partecipare al guadagno, con la “punta”, investendo soldi in nero nell’acquisto del carico di droga e, se non intercettato dagli inquirenti, dividendo gli utili.

Un incrocio di livelli che era stato magistralmente raccontato da una delle intercettazioni manifesto di quell’indagine, condotta dalla procura di Roma all’epoca guidata da Giuseppe Pignatone (presidente del tribunale vaticano), oggi indagato per favoreggiamento alla mafia a Caltanissetta, in merito al presunto insabbiamento del dossier mafia-appalti, fatti risalenti al 1992.

Cosa diceva Massimo Carminati al telefono? «Il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra (...) allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno...e tutto si mischia». E non smette mai di mischiarsi.

Il ritorno di Carminati

Massimo Carminati, dopo aver scontato la sua pena, è tornato a fare affari, incontrare persone e scrivere pizzini, guardato a vista da “amici” che gli tutelano privacy e riservatezza negli incontri. Gira ancora con una Smart, la benda sull’occhio a ricordare lo scontro a fuoco degli anni Ottanta con la polizia, sui foglietti si leggono nomi di aziende pubbliche. Preferisce un bar di un vecchio amico, anche lui citato nelle migliaia di pagine dell’indagine “mondo di mezzo”.

Carminati scorrazza nel triangolo a lui più congeniale, tra ponte Milvio e Prati, in quella Roma nord dove vive e tesse la sua rete. Una rete che viaggia tra i mondi. Nel 2021, come svelato da questo giornale, l’ex Nar ha incontrato in un bar al centro di Roma suo figlio Andrea e Fabio Pileri, il socio di Tommaso Verdini, figlio dell’ex senatore Denis, fresco di patteggiamento nell’indagine per corruzione negli appalti Anas. In fondo Pileri e Carminati jr erano stati anche soci nella Pica, le iniziali di Pileri e Carminati junior. L’azienda è stata costituita il 26 gennaio 2022 con un capitale sociale di 100 euro, ed è stata liquidata il 19 ottobre 2022, a pochi giorni dal giuramento del nuovo governo.

Di questo ritorno di Carminati, di cui Domani scrive da tempo, si trova un riferimento in un’ordinanza di custodia cautelare eseguita a carico di alcuni pregiudicati, uno in particolare Simone Pasquini, detto Paolo, ritenuto socio occulto di alcune aziende sequestrate e riconducibili, secondo i pm romani, al patrimonio della famiglia di ‘ndrangheta Mazzaferro.

È interessante il profilo di Pasquini, coinvolto anni fa nell’indagine sul fallimento di una società già al centro dell'inchiesta Enav-Finmeccanica. Dove si incontrano Pasquini e Carminati? In piazza Verdi e in via Flaminia a Roma, nel suo triangolo di potere e relazioni. Era il 2021.

ANSA

La profezia e l’inchino

Nell’indagine Mondo di mezzo Carminati divideva il suo potere con l’uomo delle coop, quel Salvatore Buzzi, in rapporti con giudici e politici. Dopo la bufera ha prima aperto un pub, ha scritto un libro e oggi ripara i suoi anni “sbagliati”. L’inchiesta ha avuto uno stop di cui si è lungamente parlato, la bocciatura della contestazione mafiosa decisa dalla corte di Cassazione. Si è aperto uno scontro tra chi sostiene che la mafia “alta” a Roma non viene mai riconosciuta e chi ha sottolineato l’inconsistenza di quell’accusa, un’alta tenzone giuridica.

Più prosaicamente, nel mondo di sotto, c’era uno che si era vestito dei panni di oracolo e aveva previsto tutto. Il suo nome è Antonio Mancini, l’accattone, membro di spicco della Banda della Magliana, poi pentitosi di quell’avventura di crimine e sangue. «Io ho conosciuto Carminati alla fine degli anni Settanta, se ne stava sempre zitto e in disparte. Una sera chiesi di lui ad Abbruciati (altro boss della banda, ndr), e mi rispose «È un ragazzo in gamba», raccontava Mancini a chi scrive poco dopo l’arresto dell’ex Nar.

L’accattone per raccontare Carminati e il suo potere si affidava alla prossemica. «Massimo (Carminati, ndr) ha ereditato la strada tracciata da Enrico, detto Renatino, De Pedis (boss di vertice della banda, ndr). Tutte le domeniche andavamo a fare colazione alla pasticceria Andreotti e iniziava lo show. De Pedis si metteva al telefono pubblico e chiamava tutti: il politico, il giudice, l’avvocato. Mentre parlava si piegava e io mi vergognavo, gli dicevo "ma che fai?” e lui mi rispondeva “Oggi mi piego io poi si piegano loro”. E così è stato, Massimo è uguale a Renatino».

Alla domanda sull’esito dell’indagine che, in quei giorni, stava travolgendo il sistema di potere in città, Mancini non aveva dubbi. «Io sono pronto a scommettere che Massimo ne esce anche questa volta, cosa hanno scoperchiato questi, quattro assessori coinvolti? Lui ha sempre avuto rapporti anche con i servizi. Ne esce anche questa volta». Aveva ragione lui.

L’imprenditore

Lontano dagli affari di Carminati è la droga che muove la città. Anche alcuni imprenditori, raccontano diversi testimoni, partecipano agli acquisti dei carichi di droga che inondano Roma, soldi che vengono riciclati ovunque: dal cinema al petrolio. Chi muore ammazzato, come Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, viene celebrato con funerali pubblici. Gli amici di Piscitelli, invece, occupano spazi, gestiscono traffici e piazze. Sono le bande criminali albanesi che vivono da pascià in comunità di recupero, lo scorso anno Dorian Petoku era scappato prima di essere riacciuffato a Dubai. Altri boss godono di comode comunità o detenzioni morbide come il re dei re, Michele Senese, che da tempo, grazie ai permessi premio, passa le feste tra familiari e pesce fresco. Un suo familiare si è insediato nella curva romanista, gradinate coperte da droga e affari. Proprio Senese ha benedetto, e con alta probabilità anche maledetto, il destino di Piscitelli così come di Antonio Gala, un altro boss dalla parabola fortunata. Era finito coinvolto in un traffico di droga e riciclaggio, gestito da una centrale di smistamento cinese, e ora è latitante. A Roma «tutto si mischia» e ognuno si salva. A modo suo.

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