- «Mi sono costituito parte civile, tramite il mio avvocato, perché quel giorno mi hanno massacrato, mi hanno rovinato la vita. Tremo, tremo ancora», dice un ex detenuto, vittima del pestaggio di stato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020, per il quale ieri si è aperto uno dei più importanti processi della storia contro lo stato.
- Durante il primo lockdown, deciso per contenere il contagio da Covid-19, nel carcere si Santa Maria Capua Vetere non c’erano mascherine, acqua potabile, biancheria. Non solo, un detenuto era rimasto contagiato dal virus e quindi era scoppiata la protesta.
- Una lunga fila di persone ha atteso ieri il proprio turno per entrare nelle aule bunker predisposte per l’udienza preliminare.
«Mi sono costituito parte civile, tramite il mio avvocato, perché quel giorno mi hanno massacrato, mi hanno rovinato la vita. Tremo, tremo ancora», dice un ex detenuto, vittima del pestaggio di stato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020, per il quale ieri si è aperto uno dei più importanti processi della storia contro lo stato.
Due grandi aule in videocollegamento, 108 imputati – dei quali una cinquantina presenti –, decine di avvocati della difesa e delle parti offese. Tre ore solo per leggere l’appello dei convenuti. Sono i numeri della prima udienza del processo a carico dei poliziotti penitenziari, della catena di comando del carcere “Francesco Uccella” e dell’ex provveditore regionale del dipartimento. Sono imputati, a vario titolo, di tortura, abuso di potere, falso e depistaggio per i fatti accaduti all’interno dell’istituto penitenziario.
Il giorno della mattanza
Durante il primo lockdown, deciso per contenere il contagio da Covid-19, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non c’erano mascherine, acqua potabile, biancheria. Non solo, un detenuto era rimasto contagiato dal virus e quindi era scoppiata la protesta.
A quel punto lo stato aveva risposto con un pestaggio generalizzato, un abuso di potere. Una violenza che Sergio Enea, giudice per le indagini preliminari, ha definito un’«orribile mattanza». Lo ha fatto nell’ordinanza con cui, nel giugno scorso, ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti incluso il provveditore regionale per le carceri della Campania.
Inizialmente gli indagati erano 117, la procura ha chiesto il processo per 108 che ora sono sul banco degli imputati in attesa del verdetto del giudice Pasquale D’Angelo che deve decidere se rinviarli a giudizio oppure no. Quel 6 aprile 2020 erano 283 gli agenti della polizia penitenziaria che hanno partecipato alla caccia ai detenuti, una repressione furiosa, contro persone disarmate e inermi.
«Li abbattiamo come vitelli», «domate il bestiame», «chiave e piccone», dicevano gli agenti penitenziari nelle chat finite agli atti del processo, istruito dalla procura, all’epoca guidata da Maria Antonietta Troncone, che ha coordinato l’indagine insieme al procuratore aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto).
Le parti civili
Una lunga fila di persone ha atteso ieri il proprio turno per entrare nelle aule bunker predisposte per l’udienza preliminare. Come prevedibile non tutte le vittime dell’orribile mattanza si sono costituite parte civile, meno della metà ha fatto questa scelta, una cinquantina su 178 parti offese.
Anche il ministero della Giustizia, l’azienda sanitaria locale, l’associazione Antigone, il garante regionale e nazionale hanno presentato richiesta di costituzione di parte civile. Su questo gli avvocati delle difese hanno chiesto un termine per presentare eccezioni. Il giudice ha fissato prima una data e poi l’ha posticipata al prossimo 18 gennaio quando, dopo aver ascoltato le obiezioni della difesa, deciderà chi sarà ammesso come parte civile nel processo e chi no.
Bisognerà decidere anche i responsabili di un eventuale risarcimento civile e il ministero della Giustizia, così come l’azienda sanitaria locale, potrebbe essere al tempo stesso oggetto di richieste risarcitorie e parte civile per i danni di immagine, e non solo, subiti. Tra gli imputati non ci sono solo agenti della polizia penitenziaria ma anche medici che hanno falsificato i certificati relativi al pestaggio.
Tra i reati contestati, infatti, ci sono anche quelli di falso e depistaggio oltre alla tortura con aggravante perché uno dei detenuti, un mese dopo i colpi subiti, è morto. Si tratta di Lamine Hakimi, ragazzo algerino neanche trentenne, che è stato picchiato e poi ingiustamente messo in isolamento dove è stato lasciato a morire senza cure e senza i farmaci che assumeva perché affetto da disturbi mentali. Per quella morte e per i reati contestati, il processo dovrebbe svolgersi davanti alla Corte d’assise del tribunale.
Il ricordo delle botte
«Ricordo ancora quel giorno, ricordo la caduta, le botte ripetute. Tremo, tremo ancora pensando a quelle ore», dice una delle vittime che si è costituita parte civile. «La mia vita da un certo punto in poi si è riempita di sbagli e lo stato non mi ha salvato mai una volta. Ma questa volta hanno sbagliato loro, hanno fatto un massacro e devono pagare», dice.
Non tutti hanno seguito il suo esempio. Per scelta, per timore o per negligenza. «Secondo me non pagheranno mai, hai mai visto lo stato che si processa da solo?», si chiede un’altra delle vittime. Il processo intanto è iniziato. Anche se per la prossima udienza bisognerà attendere gennaio.
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