- Un anno fa questo giornale ha denunciato l’orribile mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La politica ha mentito e minimizzato prima di prendere una posizione netta solo quando sono stati pubblicati i video del pestaggio.
- Non tutta la verità sui fatti del 6 aprile 2020, nel carcere casertano, è emersa. Sono 120 le persone indagate e 172 quelle offese.
- L’atto di conclusione delle indagini preliminari conferma la presenza di decine di agenti impuniti ancora in servizio e la necessità di fare piena luce sulla morte di uno dei detenuti massacrati di botte: il giovane Lamine Hakimi
Sfregiati, picchiati per ore, costretti a radersi la barba, a inginocchiarsi, a fare le flessioni, isolati, scherniti, minacciati di morte se solo avessero osato rompere il muro del silenzio. L'atto di conclusione delle indagini della procura di Santa Maria Capua Vetere sull'orribile mattanza, compiuta il 6 aprile 2020, nel carcere 'Francesco Uccella', è un compendio minuzioso di quello che è accaduto, ma anche la sintesi di come la democrazia, quel giorno, si sia trasformata in un regime violento, crudele e spergiuro. Non ci sono casi analoghi nella storia recente della repubblica italiana. Ma il documento giudiziario racconta anche altro: la presenza di decine di agenti impuniti sui quali si indaga parallelamente e gli accertamenti in corso sulla morte di uno dei detenuti massacrati di botte, il giovane Lamine Hakimi. Emerge chiaro un dato. Se i carnefici non fossero stati agenti della polizia penitenziaria, uomini e donne al servizio dello stato, avremmo dovuto parlare di una banda di criminali in grado di consumare un pestaggio, di silenziare i testimoni e di organizzare un indegno depistaggio. Roba da malavita.
Di quel giorno nero, nel quale lo stato di diritto si è eclissato, si è cominciato a parlare soltanto dopo la pubblicazione dei video da parte di questo giornale. Il racconto pubblico che Domani aveva consegnato al paese, lo scorso settembre, a cinque mesi dai fatti, aveva lasciato indifferenti i più e complici di quella ricostruzione mendace i decisori politici che avevano fatto spallucce e si erano affidati alle verità fallate della catena di comando del dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. La storia di Santa Maria Capua Vetere presenta ancora troppi perché, quesiti rimasti senza risposta e nuovi particolari che emergono dal provvedimento giudiziario di chiusura delle indagini, preludio alla richiesta di processo per le 120 persone coinvolte. La principale novità è che la procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso un troncone dell'inchiesta, ma continua a indagare alla ricerca di decine di altri agenti responsabili del pestaggio e che, in questo momento, restano senza volto. Agenti che potrebbero, in caso di individuazione, finire in una nuova richiesta di arresto da parte della pubblica accusa.
Poliziotti penitenziari che, quel 6 aprile, si muovono da altri istituti di pena perché appartenenti ai gruppi operativi di supporto, creati dal provveditore regionale Antonio Fullone, mai sospeso nonostante l'indagine a suo carico fino all'esecuzione di una misura interdittiva ai suoi danni disposta dall'autorità giudiziaria lo scorso giugno. È proprio Fullone a occuparsi di dettare la linea al ministero della Giustizia che, dopo le nostre inchieste e l’interrogazione presentata dal deputato Riccardo Magi, risponde in aula, lo scorso ottobre, chiarendo che a Santa Maria il 6 aprile c’è stata «una doverosa azione di ripristino di legalità». Dopo il pestaggio, la menzogna di stato.
I colpevoli che mancano
Le intercettazioni, gli elenchi dei partecipanti alla spedizione, il materiale sequestrato agli indagati, ma anche gli interrogatori dei soggetti coinvolti, carnefici e vittime, sono utili elementi investigativi per dare un volto a quelli che, in questa fase, vengono definiti 'soggetti non identificati', autori di violenze 'inumane', e soprusi di ogni genere. Al momento non sono stati identificati decine di agenti, la procura ha aperto un fascicolo e continua a lavorare. Su questo l'amministrazione penitenziaria, che ha avviato una tardiva indagine interna, non è stata in grado di sospendere neanche un poliziotto penitenziario se non quelli già coinvolti dall'indagine giudiziaria. La vicenda genera un paradosso, l’amministrazione conosce i nomi dei partecipanti alla spedizione, è consapevole che dentro quell’elenco, esclusi quelli già coinvolti nell’inchiesta giudiziaria, ci sono decine di picchiatori, ma ha le mani legate. Non può adottare provvedimenti di trasferimento, di sospensione perché finirebbe subissata da ricorsi, perdendoli, perché ci potrebbero essere soggetti non individualmente coinvolti anche se presenti. Così si consente a decine di agenti picchiatori di continuare a lavorare, pagati dai contribuenti, negli istituti di pena a contatto con i detenuti. Basta leggere l’ultimo documento giudiziario dei pubblici ministeri sammaritani per capire di cosa si sono resi protagonisti decine di agenti senza nome e senza volto.
Non ha un nome l'agente che afferra un detenuto «costringendolo a percorrere il corridoio che congiungeva il Reparto Nilo» e, insieme ad altri, «gli sputavano addosso, lo colpivano ripetutamente con pugni sui fianchi, con schiaffi alla testa alla schiena e alle gambe e con calci, proferendo le parole" ... portate/i via questi porci", "pezzo di merda ... merda umana”». L'anonimo continua a lavorare per conto dello stato italiano. Così come altri agenti non identificati, in aree non videosorvegliate, che «sputavano addosso ( a un detenuto, ndr), lo spingevano per le scale, lo aggredivano con schiaffi al volto, alla nuca e alla schiena, calci, pugni e manganellate sulle gambe, proferendo le parole: "sei inutile, non comandi nemmeno a casa tua, sei il cazzo mio”, “sei una merda, fai schifo, non dovevi nascere, sei un cane"». Linguaggio da malavita, una giornata da stato dittatoriale. Sono decine gli agenti impuniti e su questo la procura continua a lavorare provando a rompere il muro di omertà eretto da molti indagati. Un silenzio che deve essere violato per scoprire altri poliziotti penitenziari non ancora identificati, protagonisti di ogni genere di orrore. «Lungo le scale, non sorvegliate da alcun sistema di videosorveglianza, soggetti, allo stato non identificati, ivi disposti su ambo i lati delle scalinate, lo aggredivano con violenti schiaffi al volto, causandogli la scheggiatura di un dente, lo percuotevano con pugni e calci, in testa, nei fianchi e nella pancia, gli sputavano addosso e lo ingiuriavano con parole del tipo "uomo di merda ... stronzo"», si legge negli atti dell’accusa.
I pubblici ministeri, Alessandro Milita, Maria Alessandra Pinto, Daniela Pannone, coordinati dalla procuratrice Maria Antonietta Troncone, parlano di violenze inumane. «Un agente non identificato, che gli afferrava la sua lunga barba, strappandogliela e manifestando l'intenzione di bruciargliela ('1La barba! la barba! Te l'accendo con l'accendino")». Tra gli impunti anche il plotone che ha massacrato di botte un detenuto. La descrizione, contenuta nelle carte, è minuziosa. «L’agente della penitenziaria - allo stato non identificato - che ivi lo aveva condotto, lo colpiva violentemente con colpi di manganello sferrati alla testa, alla schiena, al bacino, alle costole e sul viso, e lo minacciava con parole del tipo "tu e tutti i tuoi compagni dovete morire, oggi devi morire", un altro agente lo afferrava per la barba stracciandogliela, gli sputava addosso e lo percuoteva con pugni al volto, proferendo espressioni del tipo "e mò chi comanda, eh? Sei il mastro del Lazio? lo vedi chi comanda qua?" e circa quindici agenti, allo stato non identificati, lo accerchiavano, gli spulavano addosso, lo insultavano e lo minacciavano con espressioni del tipo" ... ai romani e ai napoletani oggi "abbiamo 'rotto il culo", lo colpivano violentemente, provocandone la caduta, nonché lo percuotevano - mentre era a terra- con feroci colpi alla testa, alla schiena, alle costole, al bacino e al volto, sferrati con il manganello e con una sedia di legno». Il silenzio degli agenti coinvolti nell’inchiesta, dei comandanti di sezione, di reparto non ha nulla di dissimile dall’omertà che alberga in territori attraversati da poteri criminali. Se non si aprono crepe in questo fronte omertoso non si ricostruirà l’intera catena di responsabilità sui fatti del 6 aprile. Ma cosa accade quel giorno e perché?
Lo Stato processo lo stato
L'orribile mattanza prende avvio nelle ore precedenti al 6 aprile. È la risposta dell’amministrazione penitenziaria, voluta dal provveditore regionale Antonio Fullone, alla protesta inscenata il giorno prima dai detenuti. La ricostruzione di quelle ore racconta, fin da subito, la contrapposizione tra uno stato che, in spregio della costituzione, reprime, picchia e depista e un altro che, nonostante le difficoltà, mette sotto accusa pubblici ufficiali e l’intera catena di comando. Il reparto Nilo, che ospita prevalentemente reclusi con problemi di tossicodipendenze e disturbi mentali, è in subbuglio perché c’è un sospetto caso Covid nel reparto adiacente. Le immagini raccontano di letti ribaltati, detenuti nei corridoi e di una prolungata battitura. I reclusi coprono le telecamere con indumenti, ma alla fine della protesta sono loro stessi a rimettere tutto in ordine, e non ci sono segni di violenze e danneggiamenti. In cella mancano mascherine, i colloqui sono sospesi e procede a rilento la consegna delle bottiglie d’acqua.
Nel carcere ‘Francesco Uccella’, infatti, manca l’acqua potabile. Da sempre. La protesta rientra a tarda sera e vengono informati i vertici. Alle 23.30 di quel 5 ottobre, Antonio Fullone, provveditore regionale, invia l’ultimo messaggio della giornata all’allora capo del dipartimento, il magistrato Francesco Basentini, non coinvolto nell’inchiesta. «Rientrata protesta. Alla fine, ma proprio un attimo prima che entrassimo. Buona notte». La protesta, già la sera prima, come scrive il provveditore, era rientrata prima di qualsiasi intervento dall’esterno. E il capo del Dap ne era informato: «Ancora un ottimo lavoro. Notte, Antonio», i complimenti di Basentini. L’indomani, il 6 aprile, Marco Puglia, magistrato di sorveglianza visita il carcere. Quando esce riferisce che nessuna rivolta violenta c’era stata inviando a tutte le parti un messaggio tranquillizzante.
Ma l’altro stato prepara la spedizione punitiva nonostante tutto. Nelle chat i poliziotti penitenziari si caricano con queste frasi: «li abbattiamo come vitelli», «domate il bestiame», «chiave e piccone». La spedizione punitiva, sono 283 gli agenti coinvolti, dura quasi 5 ore. I detenuti del reparto Nilo vengono massacrati di botte da drappelli di agenti disposti in ogni dove: sala socialità, corridoi, celle, scale. L’esito viene comunicato da Antonio Fullone a Francesco Basentini. Alle 16:48, il provveditore delle carceri campani scrive al numero uno del Dap: «Buona sera capo, è in corso perquisizione straordinaria, con 150 unità provenienti dai nuclei regionali (oltre il personale dell’istituto), nel reparto dove si sono registrati i disordini. Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto. Forse le dovrò chiedere qualche trasferimento fuori regione. Il sicuro ritrovamento di materiale non consentito ci potrà offrire l’occasione di chiudere temporaneamente il regime». Fullone poi specifica che parlava di Santa Maria dove «Il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così».
Nelle carte dell’inchiesta e nelle altre intercettazioni, emerge però che il provveditore campano, considerato dai pm uno dei “registi” della spedizione punitiva, si è adoperato per fabbricare delle prove contro i detenuti, mettendo in atto un depistaggio. Non passa nemmeno un quarto d’ora, che Basentini, dopo aver letto il messaggio sulla necessità di un «segnale forte» manda una risposta di approvazione: «Hai fatto benissimo». Fullone informa il capo del Dap della “perquisizione straordinaria” non dei pestaggi, delle violenze e delle torture in corso. Quello che è certo, emerge dalle informative depositate agli atti, è che i carabinieri stigmatizzano il comportamento di Basentini. «Sorprendentemente, benché fosse stata esposta una motivazione del tutto vietata, Basentini manifestava adesione alla scelta del provveditore ‘hai fatto benissimo», scrivono i militari dell’arma.
La motivazione ‘riprendersi l’istituto’ non giustifica una perquisizione, ma ancora più grave è il riferimento preventivo al ‘sicuro ritrovamento di materiale’. Materiale che non sarà ritrovato e questo darà alla catena di comando l’idea di costruire prove false per giustificare la mattanza. L’altro stato però si muove subito. Il garante per i detenuti Samuele Ciambriello, successivamente anche Antigone, presentano un esposto in procura, i magistrati si attivano con rapidità, i carabinieri fanno un capolavoro investigativo, sequestrando i video nel giro di 48 ore nonostante gli ostacoli frapposti dagli indagati. Al telefono i poliziotti penitenziari comprendono l’orizzonte, la mattanza non sarà insabbiata. « «Nonostante lo sforzo… il film va in onda in forma completa», si dicono al telefono. Le prime denunce pubbliche di associazioni e familiari, aiutati dal garante Pietro Ioia, vengono silenziate dal dipartimento che smentisce ogni versione e rassicura: «l’ordine è quello di contenere. E il contenimento non prevede mai in alcun caso la violenza».
Due mesi dopo la mattanza, la procura esegue perquisizioni e indaga 57 agenti della polizia penitenziaria. Protestano i sindacati, protesta la politica, Matteo Salvini, già ministro dell’Interno, parla di violenze che non si possono sedare con le margherite. Nel comizio improvvisato all’esterno del carcere trova il sostegno di chi è autore del massacro. Gli indagati organizzano un depistaggio con false foto di olio bollente, era acqua riscaldata, e bastoni, tavoli spezzati dagli stessi agenti, per giustificare la mattanza, depistaggio che trova ampio spazio nelle interrogazioni parlamentari di 15 deputati di Fratelli d’Italia.
A settembre, un anno fa, questo giornale titola sulla spedizione punitiva. Un ex detenuto racconta ogni momento di quel giorno e rivela: «Mi hanno interrogato, qualche mese fa, e mi hanno mostrato i video, in quelle immagini mi sono rivisto, ho rivissuto quel giorno», dice. Poi aggiunge: «Mi creda, non ho mai preso così tanti colpi, manganellate e botte in vita mia e non avevamo fatto nulla, ci hanno massacrati». Il secondo governo Conte, in aula, parla di ripristino della legalità, il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, prima e Marta Cartabia, dopo, non muovono un dito. Aspettano.
A giugno di quest’anno vengono disposte 52 misure cautelari, ma la reazione è fredda e di circostanza. La ministra Cartabia parla di fiducia nell’amministrazione penitenziaria, la sua versione cambia quando pubblichiamo i video e solo allora denuncia il «tradimento della costituzione». Tradimento che rischia di essere doppio, visto che la riforma che porta il suo nome, non prevede tra i reati esclusi dall’improcedibilità, il reato di tortura e il processo di secondo grado si celebrerà a Napoli, dove i dibattimenti in corte d’appello hanno durata media di oltre 4 anni. La vicenda Santa Maria racconta di un pezzo di stato che indaga su un altro pezzo deviato e infetto. Segno che gli anticorpi funzionano, esempio di una magistratura e di una polizia giudiziaria, i carabinieri di Caserta, che onorano la carta costituzionale. Inquirenti che sono al lavoro per identificare gli agenti coperti dai caschi, ma anche per ricostruire quanto accaduto al giovane detenuto algerino morto un mese dopo l’orribile mattanza.
Numero 15: Lamine Hakimi
C'è un numero, nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari a carico degli aguzzini, in grado di raccontare quell'orrore come un unico nella storia della repubblica italiana. Le persone offese sono 172, al numero 15 si legge: «Prossimi congiunti di Hakimi Lamine (nato il 25 maggio 1992, in Algeria, Annaba) tramite l'ambasciata della repubblica algerina democratica popolare». Lamine Hakimi non c'è più, è morto il 4 maggio 2020, dopo un pestaggio violento e reiterato, dopo essere stato condotto in un cella di isolamento sulla base di una falsa informativa, dopo essere stato trattenuto oltre il termine previsto, dopo essere stato «privato di controlli giornalieri nel luogo di isolamento, da parte sia di un medico, sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, sia della vigilanza continuativa e adeguata da parte del personale di polizia penitenziaria, privato del necessario ausilio di piantone (…) modalità di segregazione devastante per la sua affezione di disturbo di personalità (…) situazione di abbandono, morale e materiale, tale da indurlo all’assunzione incontrollata di terapia farmacologica (…) in decisiva sinergia con la sostanza stupefacente buprenorfina, determinava edema polmonare, con terminale arresto cardiaco, così da cagionarne la morte». Risponde di omicidio colposo l’intera catena di comando.
Sono indagati il provveditore regionale Antonio Fullone, il direttore reggente Maria Parenti, il vice direttore Antonio Rubina, il comandante Gaetano Manganelli, il comandante nucleo traduzioni Pasquale Colucci e altri 8 agenti di vertice. Una catena di comando rimasta saldamente al suo posto nonostante avessimo indicati nomi, cognomi e responsabilità e che ora rischia il processo per una sfilza di reati, processo che vedrà lo stato democratico contro quello spietato e spergiuro, protagonista dell’orribile mattanza.
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