Molto tempo prima di Nick Bollettieri e della sua clinic in Florida, quella alle cui porte arrivò una tremebonda undicenne che si chiamava Sara Errani, a La Jolla aprì i battenti la prima academy di tennis. Si chiamava, dal nome della sua fondatrice, “Miss Tennant’s tennis clinic”.

Lei, scelse come prima allieva di livello Alice Marble, uno dei personaggi più incredibili della storia del tennis. Durante la guerra Alice confessò alla sua coach che avrebbe voluto impegnarsi ancora di più per supportare i soldati americani al fronte. Le disse: «In fondo c’è qualcosa di più importante al mondo del tennis». Al che la maestra, sollevando il sopracciglio mentre stava leggendo il Tribune, pare abbia risposto: «Tipo cosa?»

Tipo cosa?

Questo è il punto. Sara Errani che oggi, a 37 anni al fianco di Jasmine Paolini giocherà la finale del doppio femminile dei Giochi contro le russe indipendenti Mirra Andreeva e Diana Shnaider, (russa sì ma americana di formazione e linguaggio) si pone quella domanda da anni, forse da sempre. E potrebbe, nell’atto conclusivo delle Olimpiadi trovare finalmente una risposta.

Errani non è un personaggio come tanti altri e il vissuto le pesa sulle spalle con forza. Assurta agli onori della cronaca come la piccolina del gruppo Pennetta-Schiavone-Vinci, la portatrice di un sorriso che stava a metà strada fra la gioia infantile e l’ingenuità era diventata grande in singolare grazie alla finale di Roland Garros persa contro Maria Sharapova e, nel doppio, al fianco di Roberta Vinci: cinque titoli dello Slam, tre Fed Cup vinte con lei in squadra (nel 2006 non c’era) coppia al limite dell’imbattibilità, creazione di un marchio non commerciale, “le Chichi”, che ha tenuto banco per anni.

In campo uno schieramento chiaro: Vinci la creativa, la manina magica, quella che apre il gioco con gli slice e li chiude con la manina di cui sopra. Errani la solida, a volte perfino la cattiva, quella che regge e sta dove Vinci le dice di stare.

Genova, 2015

Ma le storie iniziano e finiscono, se no non sarebbero storie. Il luogo dei titoli di coda è Genova, Italia-Francia 2015. Quando le italiane entrano in campo la domenica mattina sono avvolte dal buio. Nessuno parla, nessuno guarda l’altra. Le ex Cichi mettono insieme tre game contro Parmentier e Mladenovic, non propriamente Navratilova/Shriver. E si gira pagina.

Da quel momento la domanda di cui sopra diventa per Errani qualcosa di devastante e appesantita da una buona dose di horror vacui: nell’attesa di capire cosa ci sia di più importante del tennis ne succedono di tutti i colori.

Il caso doping, la relativa squalifica, le risatine sottotraccia dei più per la dizione «doping del tortellino» visto che la difesa sostiene la tesi della contaminazione alimentare: un farmaco antitumorale della madre custodito nello stesso armadietto avrebbe inquinato, per l’appunto, i tortellini mangiati da Errani.

Dieci mesi di squalifica (procedimento penale archiviato per «assenza di dolo»), tristezza imperante che prende casa in quello che è sempre stato il punto debole del tennis di Sara: il servizio. Alle risatine per il tortellino si aggiungono quelle per quel movimento scombinato: un lancio di palla che incarna tutta l’incertezza esistenziale di Errani, che parte storto e non ne vuole sapere di arrivare in alto e scendere a campanile. E quando finalmente riesce a servire la palla è così comoda che anche la meno potente delle avversarie aggredisce con agio. Anni di pallate ricevute che sono anche cannonate contro l’autostima.

Il servizio da sotto che diventa per lei l’unica opzione percorribile e pure fonte di costante umiliazione. Una domanda che la sfianca tanto quanto quella su cosa ci sia di più importante del tennis: perché non smette? Perché non fa altro?

Ne è valsa la pena

Perché, facile sostenerlo oggi, ogni percorso ha bisogno del suo compimento. La strada di Errani incrocia quella di Paolini, come lei di statura fisica diversamente elevata ma la cui presenza in campo dà a Errani il modo di recuperare tutti i fili e mettere insieme una matassa.

Se lei era la meno creativa di quell’antico doppio con Vinci, con Paolini diventa una pittrice. Fa della rete il suo regno, con una capacità di presenza che non si vedeva da anni nel tennis femminile.

Il servizio da sotto (sdoganato in senso circense anche nel maschile, vedi Bublik, Moutet eccetera) non è più un’umiliazione ma un marchio di fabbrica, una soluzione tecnica. Lo gioca contro Medvedev nell’ultimo punto del match di misto e il russo spedisce la palla lunga. Lo esegue sul match point nella semifinale del doppio contro le ceche e l’avversaria risponde timorosa offrendo a Paolini una facile opportunità di chiudere il match.

Paolini non solo completa il suo gioco, come lei riusciva a fare con Vinci, ma l’ha condotta a lasciarsi il passato alle spalle e inaugurare un futuro: un domani in cui, una volta smesso di giocare, potrebbe diventare capitana di Billie Jean King Cup, l’ex Fed Cup.

Tutto quello che ha vissuto si trasforma ora in aggressività su ogni palla giocabile a volo e il servizio da sotto le avversarie lo attendono con rispetto, mica col sorrisino.

Con al fianco la verve e la coscienza tattica di Paolini, Sara Errani giocherà oggi la finale del doppio contro due che insieme raggiungono la sua età, conscia che comunque finirà, dopo il successo di Roma e due finali Slam perse di fila (Parigi e Wimbledon) si potrà guadare allo specchio e dire, rispondendo a Mrs. Tennant, che più importante del tennis è fare del tennis lo strumento per imparare a vivere. Penserà che ne è valsa la pena. E sorriderà.

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