Quando il calcio era ancora naif, poteva succedere che la notte prima di una partita di Serie A il prato fosse allagato con gli idranti, nella convinzione che il gesto avrebbe aiutato la squadra più debole. Accadde a Catanzaro nel gennaio del ‘72, alla vigilia dell’arrivo della Juventus. Finì in effetti con una vittoria. La ricostruzione dell’episodio e la vita di Salvatore Caligiuri, oggi 81 anni, uno dei 16 ospiti della Casa Paese per malati di demenze a Cicala
Un sabato notte Sasà aprì tutti i pensabili rubinetti, dando “fuoco” alle pompe che quasi sommersero l’erba dello stadio “Nicola Ceravolo” di Catanzaro, dove al pomeriggio seguente la Juventus perse con un miracoloso colpo di testa di Angelo Mammì, a cinque minuti dalla fine. Non senza un seguito di polemiche per quell’eccezionale acquitrino di domenica 30 gennaio 1972.
Quella della strage nel quartiere Bogside a Derry, quando i militari inglesi massacrarono quattordici persone tra le migliaia di manifestanti per i diritti civili e ricordata dagli U2 in Sunday Bloody Sunday. Un massacro che impressionò il mondo.
Ne parlarono anche le radioline allo stadio, e tutti a commentare nonostante la Vecchia Signora e il Catanzaro stessero giocando, stipati all’inverosimile, tra fumi di sigarette e fiati aroma caffè e Brasilena spezzati dal gelo.
Sul campo, una laguna, il vento leggendario della baia sullo Jonio – non a caso terra di conquista delle grandi multinazionali dell’eolico – a spadroneggiare più delle piroette di Franco Causio. Salvatore, Sasà aveva 29 anni, e stava ammucchiato nel pubblico. Nessuno, tranne i tre o quattro “complici”, sapeva.
Cinquantadue anni dopo scopriamo come andarono i fatti, ed è una ricostruzione che commuove perché Sasà Caligiuri, oggi ottantunenne, è uno dei sedici anziani della Casa Paese per malati di demenze, nata due anni fa a Cicala, nel Catanzarese, un borgo di non più di 800 anime ai piedi della Sila Piccola. Quando ci arrivi, dopo tutte quelle curve che tagliano boschi di pini e castagni, ti senti come capitato in un ingrandimento fiabesco. Così è, alla fine. E poi quel nome. Evoca il canto perenne delle cicale immerse nel loro mondo, lontano dal mondo. Quasi un destino, perciò.
«Mica vengono ad arrestarmi?», chiede Sasà, seduto al bar di Piazza dello Sport. È uno degli scorci del borgo, una struttura di quasi 900 metri quadri, prima una chiesa, poi un asilo, oggi Casa Paese, appunto. Una enorme quinta teatrale, l’utopia, vincente, un caso unico al mondo, di Elena Sodano.
Sessant’anni, un marito educatore che combatte a Catanzaro con i fantasmi dei giovani, tantissimi, distrutti dalla droga, due figli fuori dalla Calabria, i gatti, un lupo cecoslovacco. Presidente dell’associazione Ra.Gi., Centri Demenze Calabria, specializzata nella cura non (solo) farmacologica dei pazienti, “imprenditrice” della protezione (letterale) di chi soffre, non è un medico, ha una laurea in filosofia, una in psicologia, e un progetto visionario che è riuscita a realizzare: un luogo dove poter «dare un senso alla vita di quanti, come Sasà, stanno in un eterno presente», dice, «immersi in quella bolla temporale senza memoria, indifesi».
Non si scappa dalla malattia, ma esiste una strada opposta all’oblio. Nel “paese” che finalmente vive e respira, lontano dagli abbandoni e dai disastri delle Rsa e delle case riposo, da una sanità pubblica incapace di dare vero sostegno a pazienti e famiglie lasciate da sole di fronte al demone – «dopo il Covid la situazione era apocalittica, con famiglie disperate», racconta Elena – ci sono la posta, il barbiere, la farmacia, la trattoria “Totò e Peppino”, la bottega di alimentari e verdure, la tabaccheria, il bar dello Sport.
Quinte, scenografie, fondali, sono fantasie necessarie, aiutano ad affrontare il danno e la sofferenza a viso aperto. Come i giallorossi fecero con la Juve per tutta la partita, quella domenica. Il miracolo del gol di Mammì al minuto 84 è rimasto intatto anche nella testa di Salvatore. «Mammì, Mammì, Angelo», fa, stringendo il pugnetto come i tennisti. Se ne avesse la forza entrerebbe anche lui nella cabina di Enrico Ameri, come fece un tifoso subito dopo quel calcio d’angolo urlando gooool al microfono.
Soltanto il pallone riesce di tanto in tanto a dribblare l’Alzheimer che lo ha imprigionato, e con lui un milione e mezzo di persone in Italia. Quando gli parli del Catanzaro si illumina. «Quanti anni ho? Trecento e uno», risponde. A una seconda domanda ne ha cinquanta, ed è appena rientrato dal lavoro: «Vedi, ho le mani di pittura».
L’acqua fece del rettangolo dello stadio una fiumara. Sta in silenzio, Sasà, sembra riordinare i pensieri. Viene in mente il passo di una lettera di Van Gogh, quando scrive «come tutti io sento il bisogno di avere una famiglia e degli amici, affetto e cameratismo. Non sono fatto di pietra o di ferro, come un idrante o un lampione». Di idranti ne sa qualcosa, Salvatore. Di cameratismo anche.
I suoi compagni e compagne di “spogliatoio” sono per esempio mastro Aiello, che ogni mattina alle quattro e mezza ordina alla “squadra” di prendere l’occorrente per andare ad «alzare il trambicco», l’impalcatura, e impastare il cemento; c’è Tina, che confida di essersi innamorata del bel Simone, un infermiere di neanche trent’anni, ma che quando ha scoperto di averne, lei, 80, lo ha lasciato e ci è rimasta molto male; e poi ci sono Josepha, cantante lirica, dolcissima burbera, a intonare la Traviata con i suoi orecchini luccicanti, ed Elena, che cuciva «gli abiti da sposa più belli» e vive qui col figlio Paolino, malato di Alzheimer e con sindrome di Down; e Pierrette, francese, nata in Algeria, che quando morì il marito calabrese di colpo dimenticò di saper parlare anche in italiano; e Vittorio, che ha venduto per cinquant’anni giornali; Vincenzo, poi, che ha girato il mondo e ballava in Sudamerica.
Soffre (anche) di una rara malattia della pelle, è costretto a stare con le bende a piedi e mani. Fa male, però se gli chiedi un accenno di paso doble fa una piroetta, volando sotto braccio a Valentina, 27 anni, la responsabile degli operatori – «questa è anche casa mia, loro sono la mia famiglia», dice – fino da “Totò e Peppino” a mangiare i maccheroni al tavolo con Sasà. «Qui non ci sono leggi ospedaliere, nessuna serranda verrà mai spalancata all’alba, e capita che i nostri amici si alzino di notte a fare due passi nelle vie del borgo», spiega Sodano. Per Sasà fu difficile accettare di cambiare casa. Non c’era verso di farlo entrare, quella mattina, quando lo accompagnarono i figli. Voleva andare allo stadio, piuttosto.
«Ci vado tutte le domeniche – dice, persuaso, imbrigliando le parole tra i denti – perché il pallone è una cosa seria. Giocavo? Sì, io giocavo, ero centrale, l’allenatore mi diceva di stare sulle linee. Stai sulle linee, stai sulle linee…». Facciamo il nome di Massimo Palanca, l’idolo baffuto del Catanzaro, il primo che tutti ricordano quando si parla del Catanzaro.
Resta in silenzio, Sasà. E poi: «Chiru pede piccolo, hicia nu mari i gol». Se lo ricorda il piedino di Palanca che «fece un mare di gol», e quelle epiche parabole direttamente da calcio d’angolo. Baffone, debitamente istruito, risponde alla nostra videochiamata ed è già sorridente. Casa Paese si immobilizza, come in un incantesimo. «Buongiorno, come stai?», esordisce Palanca. Sasà fissa lo schermo, addosso ha la sua bandiera giallorossa, incredulo. Parlano i suoi occhi lucidi, spalancati.
«Mi hanno detto che sei stato tu ad allagare il campo! Io non c’ero nel ’72, ma me lo raccontarono come andò quella partita Sasà – gli dice Palanca – il Catanzaro vinse meritatamente, non per tutta quell’acqua». Annuisce, Sasà, «è lui, è lui, forza Aquile sempre…», ripete.
Faccia a faccia col mito, quell’ex attaccante giallorosso icona del calcio del sud che oggi, come racconta a una Piazza dello Sport tutta rapita, fa il nonno a tempo pieno e che commosso promette, salutando, di venire appena gli sarà possibile a Cicala. Salvatore, stregato, felice, confessa: «Mi calai di notte, ero con tre compagni, aprimmo tutte le pompe. Sono stato un eroe».
Favolosa sintesi, della favolosa storia di Sasà che allagò la Juventus.
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