Pallavolo, pallamano, calcio a cinque, calcio femminile. È lunga la lista delle squadre arrivate al titolo di campione d’Italia e poi costrette a farsi da parte: o cedono il titolo per la partecipazione a un’altra città, oppure sono travolte da spese all’improvviso sostenibili. L’ultimo caso a Casalmaggiore, dove poche settimane ha annunciato la cessione dell’attività a Cuneo. Ma quando qualcosa rinasce, se rinasce, non è detto che sia ciò che era prima
Uno scudetto, una Supercoppa italiana, una Champions League, la finale del Mondiale per club: per una manciata di stagioni, nemmeno troppi anni fa, la Vbc Casalmaggiore era stata capace di imporsi nel volley femminile a livello italiano ed europeo. Davide Mazzanti il coach del titolo tricolore, Massimo Barbolini quello del trionfo continentale, in campo Stefanovic, Tirozzi, Sirressi, Piccinini, Lloyd, e quante ancora se ne potrebbero citare per una società che, poche settimane fa, ha annunciato la cessione del titolo sportivo a Cuneo.
Ciao ciao A1, ma l’attività «comunque prosegue sia a livello economico che sportivo», ha scritto in una nota il club. Che ripartirà, non si sa ancora dove, ma almeno non sparirà – non ora – e non lascerà orfani tifosi e città.
La storia della pallavolo italiana, tanto quella maschile quanto quella femminile, è in effetti una Spoon River di società che furono gloriose e poi non furono più, scudetti e coppe con un passato ma nessun presente a custodirne il ricordo, titoli sportivi passati di città in città. Casalmaggiore sopravviverà, magari com’è accaduto all’Olimpia Ravenna Teodora, continuazione societaria in scala di un club che dominò gli anni Ottanta. Di sicuro, ora l’obiettivo è quello di non fare la fine di Chieri, che vinse la Top Teams Cup (l’equivalente dell’attuale Coppa Cev) nel 2005, superando in semifinale l’Eczacibaşı e in finale il Bayer Leverkusen, ma poi fu trasferita a Torino nel 2012 e chiusa un anno più tardi.
Quando qualcosa rinasce, se rinasce, non è detto che sia ciò che era prima, né che vi si avvicini.
Il caso Parma
Nel volley italiano c’è una città che queste dinamiche le conosce bene: Parma. Dalle macerie della squadra di pallavolo femminile cittadina nacque l’Imoco Conegliano, che nel 2012 ne rilevò il titolo sportivo: la società cedente si chiamava Parma Volley Girls, la bacheca non era prestigiosa, ma aveva giocato la A1 e, persa la sponsorizzazione della banca che la foraggiava, chiuse i battenti. Tra gli uomini, era già accaduto qualcosa di simile, anzi di peggiore, perché nel 2004 saltò definitivamente in aria Pallavolo Parma, che secondo l’anagrafe di quelli che oggi si definiscono title sponsor, nei momenti di gloria era Santal, poi Maxicono: otto scudetti, cinque Coppe Italia, due Coppe dei Campioni/Champions League e svariati altri trofei. Zorzi, Giani, Gravina, Bracci: tutto finì con l’addio del principale finanziatore, peraltro in un’epoca nella quale il tessuto economico-finanziario della città, con i fallimenti di Parmalat e Guru, liquidazioni di aziende varie ed eventuali, oltre al passaggio nelle mani di grandi gruppi “forestieri” dei due principali istituti di credito cittadino, visse una delle fasi più delicate della sua storia.
La chiusura era una questione di quando, non di se, perché già nel 1996 Parma aveva dovuto cedere per la prima volta il suo titolo sportivo di A1, per sopravvivere ripartendo dalla A2: sarebbe durata altri otto anni, sempre sul filo. Il diritto di partecipazione alla A1 della fu Maxicono lo presero a Roma, nacque Roma Volley: sarebbe stata chiusa nel 2002, non prima di avere vinto uno scudetto.
Quattro anni più tardi venne fondata la M. Roma Volley, che con Roma Volley non aveva nulla a che vedere, ma debuttò in A1 grazie al diritto rilevato da Crema che, a sua volta, aveva acquisito quello di Gioia del Colle. Sembra quasi di stare Alla fiera dell’est, all’arrivo dell’angelo della morte, latore della cessazione per i club e di quello che, per gli appassionati, è un lutto.
La pallamano
Cose che capitano, e nemmeno così infrequentemente, laddove lo sport si fonda solo sul mecenatismo di qualche imprenditore appassionato che, però, prima o poi non può più sottovalutare le spese voluttuarie. La pallamano, ad esempio, tre lustri abbondanti or sono ha perso un club che, a inizio anni Ottanta, era tra i più titolati in campo nazionale. Quattro scudetti, quattro Coppe Italia: questa la bacheca della Volani Rovereto.
«Chi ricorda quei tempi, le sfide con la Cvd Trieste, l’Ortigia Siracusa o Scafati, sono quasi tutti miei coetanei: ormai qui si è persa la tradizione della pallamano, e quando una città perde uno sport ci rimette in tutti i sensi», racconta a Domani, non senza malinconia, Viliam “Willy” Angeli, classe 1952, consigliere comunale di Rovereto ma, anche e soprattutto, per quasi vent’anni giocatore e capitano di quella squadra, grazie alla quale finì in Nazionale.
«Giocammo anche la Coppa dei Campioni: ci sentivamo ambasciatori di Rovereto in tutta Italia e in Europa, ma dopo il disimpegno di Volani, che ci teneva, trovare sponsor era diventato molto difficile. Negli ultimi anni, quando io allenavo, come società ci trascinammo, poi finì come doveva finire». Cioè male.
Il calcio a cinque
A Rovereto, oggi, lo sport con la società più alta in grado è il futsal, con l’Olympia. Già, il calcio a 5, uno sport a parte con una storia piuttosto recente e poco sostenibile. Tra i club che non esistono più, due meritano menzione: la Luparense (sei scudetti e altri nove titoli nazionali), per anni egemone pur essendo alla periferia dell’impero, a San Martino di Lupari, nel Padovano, e il Città di Montesilvano, club che nel 2011 arrivò anche a trionfare in Uefa Futsal Cup, vale a dire quella che oggi è la Champions League. A guardare l’albo d’oro della competizione, gli abruzzesi spiccano in mezzo a Benfica (vinse nel 2010) e Barcellona (2012), le cui polisportive hanno sezioni di futsal storiche. Lettura ambivalente: da un lato, è la conferma che si trattò di un’impresa (Montesilvano batté in finale lo Sporting Lisbona), dall’altro illustra una distanza siderale con i rivali, spiegando almeno uno dei motivi della fine.
Il mecenatismo sportivo, si è detto, è ormai da un paio di decenni in crisi. A volte è passione, altre è strategia commerciale, e quando l’immagine non serve più al business, o il business ha tirato troppo la corda, si saluta. La già citata Parmalat ne è un esempio, e così pure Benetton, che per anni ha significato Treviso. Nella pallacanestro la Treviso che oggi è in A1 è l’Universo: esisteva prima che i Benetton legassero il proprio nome a Pallacanestro Treviso, una società differente, segnando un’era con investimenti anche strutturali (il complesso della Ghirada e il PalaVerde): scudetti, coppe assortite, una storia di successo, poi, dal disimpegno della famiglia, la società esiste solo per l’attività giovanile. Meglio che niente, ma certo è un altro mondo.
Sorte simile per il volley maschile trevigiano: aveva il marchio Sisley, sempre di famiglia, arrivò in cima al mondo, perse i finanziatori, venne spostato a Belluno: la società è ancora attiva, ma in sedicesimo, dopo essere stata ricostruita sulle rovine della grandeur.
Il calcio femminile
Altra collina sulla quale dormono in troppi è quella del calcio femminile. Altra epoca, decisamente pre Juventus Women, diciamo. Nomi evocativi, l’elenco sarebbe lunghissimo, basti allora un dettaglio: nel palmares di Carolina Morace spiccano ben dodici scudetti, sette dei quali vinti con Trani 80, Milan Salvarani (che non era il Milan), Agliana, Verona Gunther e Modena, tutti club che non esistono più. Così come non esistono l’Alaska Lecce, il Bardolino, il Foroni Verona.
Questa, però, non è una lista esaustiva, essendo diversi sport di squadra italiani, per costi – spese vive, rimborsi, i frequenti fuori busta – e invisibilità, investimenti con una data di scadenza. Si balla sino a che qualcuno suona. Ma quando la musica finisce, le luci si spengono per davvero e non si riaccendono più.
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