Lo scorso 5 giugno i giudici hanno annullato il provvedimento con cui le autorità italiane avevano imposto il fermo amministrativo della Sea Eye 4 per 60 giorni. Inaffidabili e contraddittorie le prove presentate dai libici. Gli avvocati ora puntano a un intervento della Corte costituzionale per giudicare la legittimità del decreto meloniano
Il tribunale di Reggio Calabria ha emanato la prima sentenza in Italia che dichiara illegittimo un caso di fermo amministrativo nei confronti delle ong che salvano vite in mare. Lo scorso 5 giugno i giudici hanno annullato il provvedimento con cui le autorità italiane avevano imposto il fermo amministrativo della Sea Eye 4 per 60 giorni.
L’equipaggio della Sea Eye 4 è stato accusato sulla base del decreto contro le ong, varato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, di aver eseguito lo scorso 7 marzo un’operazione di salvataggio in area Sar della Libia senza l’autorizzazione della guardia costiera libica e contro le istruzioni impartite dalle autorità del paese nord africano. Durante quell’operazione sono state salvate 84 persone, tra cui 36 bambini e 13 donne.
Nelle prossime settimane si concluderanno anche altri procedimenti simili per fermi amministrativi. Al momento ce ne sono molti altri aperti tra cui a Ragusa, Crotone e Brindisi dove è stata sospesa l’efficacia del fermo ritenuto illegittimo nelle fasi cautelari. A dimostrazione che il decreto contro le ong del governo Meloni sta iniziando a far vedere le sue prime crepe.
La vicenda
I fatti contestati risalgono allo scorso 7 marzo. Secondo la versione libica, riportata e data per certa dalle autorità italiane la Sea Eye 4 è intervenuta nel salvataggio di un’imbarcazione nonostante la guardia costiera avesse inviato due sue motovedette (Marzuq e Fazzan) e un gommone veloce per trainare i naufraghi. Quindi l’accusa è che l’equipaggiamento della nave battente bandiera tedesca avrebbe agito senza l’autorizzazione o il coordinamento delle autorità libiche, mettendo in pericolo l’incolumità dei naufraghi.
Ma per i giudici le cose non sono andate in questa maniera anche perché la mail delle autorità libiche presentata come prova dalle autorità italiane è stata considerata contradditoria e poco attendibile.
Quelle poche righe su cui si è basata l’accusa non bastano, soprattutto se è noto come la guardia costiera libica agisce da anni in maniera molto poco trasparente. Quella mail, secondo i giudici, «non contiene un verbale di operazioni compiute con indicazione dell’orario del tentativo di contatto e con l’indicazione del numero di utenza contattata; non contiene una o più mail inviate all’ong attestanti i tentativi di contatto e le indicazioni fornite; non contiene l’indicazione di una registrazione audio/video attestante le comunicazioni avute o tentate».
Inoltre, nella sua difesa Sea Eye 4 fa anche notare che l’accusa non ha svolto un’adeguata istruttoria, omettendo di acquisire le comunicazioni via audio dell’equipaggio con le autorità libiche, le riprese video effettuate dalla ong e le testimonianze dei presenti. Quindi, «la tesi libica (esposta in sette righe), recepita dalle autorità italiane, contrasta con il rimanente materiale probatorio», dicono i giudici.
La difesa
Le prove presentate dalla difesa, invece, sono chiare. A partire dalla mail inviata da Sea Eye 4 alle autorità marittime libiche in cui le informava che avrebbe eseguito il soccorso dei migranti «in attesa di coordinamento e ulteriori istruzioni da parte vostra». Una dimostrazione che l’equipaggio della Ong non ha rifiutato i contatti con i libici e anzi ha deciso di contattarli aspettando loro notizie, mai arrivate. Inoltre, secondo i giudici «le autorità libiche sono giunte sui luoghi quando le operazioni erano già ben avviate» e quasi completate. Ma a inchiodare le autorità italiane sono le registrazioni audio delle conversazioni tra Sea Eye 4 e la guardia costiera libica in cui quest’ultima ringrazia l’equipaggio per il salvataggio e gli dice di abbandonare l’area.
«A fronte di pretese inottemperanze da parte dell’ong alle indicazioni impartite (che, lo si ripete, non è chiarito quali fossero, salvo quella di lasciare l’area) o di rifiuti di mettersi in contatto da parte dell’on, le autorità libiche, alla prima occasione di contatto con il comandante della Sea Eye 4, lo avrebbero ringraziato per la collaborazione prestata», scrive il giudice. «Ne consegue l’illegittimità del provvedimento impugnato che deve pertanto essere annullato». Una vittoria giudiziaria non indifferente e una sconfitta per le autorità italiane.
«Il problema principale però resta il Decreto Piantedosi, che va abrogato perché è chiaramente rivolto ad ostacolare i soccorsi in mare. Fermando le navi che effettuano i salvataggi e in mancanza di un sistema pubblico italiano o europeo di salvataggio nel Mediterraneo, si determina inevitabilmente un numero sempre crescente di morti in mare», dice Dario Belluccio, avvocato che, insieme ai colleghi Lidia Vicchio e Daniele Valeri, ha rappresentato in tribunale le tesi della Sea-Eye. Secondo i dati dell’Oim lo scorso anno i morti nel Mediterraneo sono stati oltre 3.129 morti, in aumento del 20 per cento rispetto al 2022.
«Lo scopo di questa legge non è la regolamentazione della materia (chiara già in base alle norme prima vigenti), ma la criminalizzazione delle attività della società civile. Ad oggi sono oltre venti i provvedimenti che hanno imposto il fermo delle navi, con tutto ciò che ne consegue, per non parlare della strategia governativa di assegnare dei porti di sbarco lontanissimi rispetto al luogo in cui si è svolto il soccorso», aggiunge Belluccio. Gli avvocati di auspicano in futuro anche l’intervento della Corte costituzionale per giudicare sulla legittimità del provvedimento «perché sta creando un vulnus nell’ordinamento molto preoccupante».
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