- La Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’obbligo vaccinale e delle conseguenze derivanti dal suo inadempimento per i lavoratori del comparto sanità e scuola.
- Sulla legittimità dell’obbligo vaccinale non c’erano molti dubbi. Per l’art. 32 Cost. la salute è un bene non solo individuale, ma collettivo. Quindi, la legge può imporre un trattamento sanitario, inclusa una vaccinazione.
- Sorgono dubbi, invece, sulla legittimità della sospensione di stipendio e assegni per i lavoratori non vaccinati. La Corte sembra aver reputato che, in condizioni di eccezionalità, il diritto alla salute possa prevalere su altri diritti, fino ad annullarli. Ma ciò parrebbe contrastare con pronunce precedenti.
La Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’obbligo vaccinale e delle conseguenze derivanti dal suo inadempimento. Occorrerà leggere le motivazioni della pronuncia. Tuttavia, sin d’ora può già svolgersi qualche considerazione al riguardo.
I tribunali
Nei mesi scorsi, una serie di tribunali avevano sollevato dubbi sulla costituzionalità delle norme che imponevano l’obbligo vaccinale ai lavoratori del comparto sanità e scuola, con la sospensione dal lavoro, dallo stipendio e da qualunque altro compenso o emolumento in caso di violazione.
Secondo il Consiglio di giustizia amministrativa Sicilia, il vaccino contro il Covid non rispettava le condizioni poste dalla Corte costituzionale per la legittimità dell’obbligo stesso, e cioè – tra le altre – che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è obbligato, salvo che per le sole conseguenze tollerabili. Secondo il Consiglio, «il numero di eventi avversi, la inadeguatezza della farmacovigilanza passiva e attiva» e molti altri fattori avrebbero messo potenzialmente a rischio la salute del vaccinato.
Il tribunale di Brescia lamentava che, in alternativa alla sospensione dal lavoro, il non vaccinato non potesse essere adibito a mansioni prive di contatto con il pubblico; ed evidenziava che la perdita della retribuzione e l’impossibilità di fruire di un qualche sostentamento fosse una conseguenza sproporzionata, perché lesiva della dignità della persona.
Anche il tribunale di Padova si interrogava sulla ragionevolezza delle conseguenze della mancata vaccinazione, considerato che «la persona vaccinata, che non si sia sottoposta al tampone, può essere ugualmente infetta e può quindi ugualmente contagiare gli altri», mentre la persona che, pur non vaccinata, si sia sottoposta al tampone, «può ragionevolmente considerarsi non infetta per un limitato periodo di tempo».
Il Tar della Lombardia, invece, sollevava il problema della sospensione del professionista le cui prestazioni sanitarie non implicassero contatti interpersonali o non comportassero, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2.
La legittimità dell’obbligo vaccinale
Premesso che quest’ultimo caso non è stato esaminato dalla Corte, in quanto inammissibile per ragioni processuali, il comunicato stampa relativo alla sentenza si articola in due punti essenziali.
Il primo si riferisce alla legittimità dell’obbligo vaccinale: la Consulta ha ritenuto «non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario». Non c’erano molti dubbi al riguardo, come abbiamo scritto a partire da novembre 2020.
L’art. 32 della Costituzione tutela la salute, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», disponendo inoltre che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», e sempre entro «i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In altre parole, la salute è un bene non solo individuale, ma sociale: ciascuno è libero di decidere se, come e quando curarsi, quindi anche vaccinarsi, ma non è libero di nuocere alla salute altrui o alla salute pubblica. Quindi, la legge può imporre un trattamento sanitario, inclusa una vaccinazione.
La Corte ha chiarito le condizioni che legittimano tale imposizione: il trattamento dev’essere «diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri»; non deve comportare conseguenze negative per la salute di chi vi è obbligato, salvo quelle «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili»; nell'ipotesi di danno ulteriore dev’essere prevista «una equa indennità» (sentenza n. 5/2018).
In articoli precedenti abbiamo chiarito che il vaccino anti-Covid rispetta tali criteri: ad esempio, esso non è “sperimentale”, poiché l’autorizzazione, se pur condizionata, «soddisfa i rigorosi standard Ue» ed è «a tutti gli effetti un’autorizzazione formale»; e non può pretendersi l’assoluta assenza di rischi, che vanno bilanciati con i benefici, in base alla «migliore scienza disponibile».
La sospensione di stipendio e assegni
Restano perplessità, invece, sulla parte della decisione secondo cui, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione dal lavoro, è legittimo privare il lavoratore, oltre che dello stipendio, anche di «un assegno a carico del datore di lavoro». Si tratta dell’assegno alimentare previsto per i lavoratori sospesi «in misura non superiore alla metà dello stipendio» (Testo unico sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, D.P.R. n. 3/1957).
Il dubbio è che precludere a lavoratori non vaccinati ogni forma di sostentamento per far fronte a bisogni primari potrebbe violare «i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Limiti che definiscono il concetto di “dignità” e che, secondo la Costituzione, non possono essere violati «in nessun caso» (art. 32).
Con quest’ultima decisione, la Corte sembra aver reputato che la salute possa prevalere sul diritto al lavoro e al sostentamento fino ad annullarlo. Ciò parrebbe contrastare quanto affermato dalla stessa Corte nel 2013, riguardo al caso Ilva, ove pure erano coinvolti il diritto alla salute e quello al lavoro: «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca» - avevano affermato i giudici - «e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri» (sentenza n. 85/2013). In altre parole, il diritto alla salute non è “tiranno” rispetto ad altri e, pertanto, è doveroso un bilanciamento di tutti i diritti, secondo criteri di proporzionalità, necessarietà e adeguatezza.
In relazione all’obbligo vaccinale non appare chiaro come la Corte abbia operato tale bilanciamento, dato l’esito. Probabilmente, i giudici giustificheranno la decisione con l’emergenza pandemica, e quindi con lo stato di eccezionalità entro cui è stato imposto l’obbligo. Inoltre, potrebbero motivare la proporzionalità del sacrificio di alcuni diritti con la temporaneità del sacrificio stesso.
Insomma, la Corte potrebbe affermare che la condizione di eccezionalità determinata dalla pandemia giustifichi la deroga a parametri ordinari e che tale deroga non sia eccessiva in quanto temporalmente limitata. Ma anche in questo caso la Consulta forse andrebbe contro quanto da essa stessa affermato in una precedente sentenza (n. 151/2012), e cioè che la gravità di una certa crisi – il riferimento era a quella finanziaria - non può essere invocata per sospendere garanzie costituzionali «neppure in situazioni eccezionali».
In conclusione, la pronuncia sull’obbligo vaccinale induce il timore che in futuro, per situazioni reputate critiche dal governo pro tempore, la dichiarazione dello stato di emergenza, determinato dall’eccezionalità del momento, possa giustificare atti parimenti eccezionali che comprimono diritti. Si confida che le motivazioni della sentenza siano tali da fugare questo timore.
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