- Dagli oriundi ai neo-italiani la nazionale conferma una tendenza di lungo corso. Ma con l’inizio del Ventunesimo secolo il ricorso a questa mossa si è inflazionato con l’effetto di chiamare in azzurro calciatori anche modesti.
- Una scorciatoia eticamente discutibile, intrapresa per migliorare la competitività della nazionale quando il sistema interno della formazione non garantisce più un adeguato bacino di talento.
- In Italia più che altrove in Europa il sistema della formazione è vicino al default. Non produciamo più calciatori competitivi, e i motivi di una seconda eliminazione consecutiva dai mondiali stanno qui.
Parola d’ordine: reclutare. La nazionale italiana di calcio si appresta ad arruolare l’ennesimo calciatore nato e formato in un paese straniero e la notizia viene accolta ormai con piglio da pigrizia amministrativa. L’ultimo arrivato è João Pedro Geraldino dos Santos Galvão, noto più semplicemente come João Pedro, attaccante brasiliano in forza al Cagliari che il prossimo marzo compirà 30 anni.
Un buon giocatore che non è mai stato sfiorato dalla prospettiva di essere convocato dalla nazionale maggiore del suo paese. E poiché il giocatore è in possesso della cittadinanza italiana, acquisita per avere sposato una cittadina del nostro paese, ecco che l’incastro si realizza alla perfezione.
Come è reso chiaro dalle dichiarazioni rilasciate sia dal calciatore sia dal presidente della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), Gabriele Gravina, che secondo indiscrezioni sarebbe favorevole a rendere eleggibili per la nazionale altri due stranieri impegnati in Serie A: il brasiliano di origine uruguayana Roger Ibañez, difensore della Roma, e il brasiliano Luiz Felipe, che gioca nella Lazio.
Tre naturalizzati in un colpo solo e in vista dei playoff che la nazionale di Roberto Mancini dovrà affrontare il prossimo marzo per staccare il biglietto verso Qatar 2022. Che tutto ciò avvenga dopo la mancata qualificazioni diretta è forse una coincidenza.
Ma al di là dell’aspetto contingente bisogna fare altre considerazioni, relative sia al piano etico della questione che allo stato di salute del sistema calcistico italiano come macchina della formazione dei talenti. E tanto su un piano quanto sull’altro le indicazioni che ne derivano sono desolanti.
La scorciatoia
Per lungo tempo li abbiamo chiamati oriundi. Si trattava di calciatori nati in un paese estero e che in molti casi avevano già giocato e vinto con la loro nazionale, ma che grazie alla presenza di avi italiani nell’albero genealogico acquisivano la cittadinanza italiana e per questo potevano essere utilizzati dalla rappresentativa azzurra.
Rispetto all’epoca dei primi oriundi le regole Fifa sull’eleggibilità sono state ampiamente inasprite. Ma ciò non elimina la possibilità che, nel caso il calciatore acquisisca una diversa cittadinanza, egli possa essere convocato dalla nazionale del nuovo paese qualora non abbia mai giocato per la nazionale del paese nativo.
Quella che porta a naturalizzare è una scorciatoia, che permette di intraprendere la strada del reclutamento (acquisire il talento già formato da altri) anziché rimanere nell’ambito della formazione, individuando e sviluppando il talento sportivo all’interno dei propri circuiti territoriali e strutturali.
L’oscillazione fra le scelte della formazione e del reclutamento dovrebbe essere consentita ai club, mentre le rappresentative nazionali dovrebbero fare esclusivamente formazione. E invece le eccezioni al principio sono sempre esistite e il mutamento culturale impresso dalla globalizzazione ha fatto il resto. Senza che ciò, tuttavia, estingua il giudizio etico su questa scelta che rimane una soluzione sbrigativa, compiuta per ovviare a un deficit del proprio sistema di formazione. E qui sta l’aspetto più drammatico della questione, se si guarda allo specifico caso italiano.
Un fiasco formativo
Quasi tutte le nazionali hanno ceduto di recente alla tentazione di utilizzare il reclutamento. Ma la frequenza con cui la Figc ha fatto ricorso ai naturalizzati, a partire dall’inizio del Ventunesimo secolo, è imbarazzante. Un’azione sistematica che ha portato in maglia azzurra calciatori del calibro di Mauro Germán Camoranesi e Jorge Luiz Jorginho, ma anche altri dal valore discutibile.
Perché bisogna non dimenticare che nell’ultimo ventennio la maglia azzurra è stata vestita anche da Gabriel Paletta, Cristian Ledesma, Daniel Osvaldo, Ezequiel Schelotto, Franco Vazquez. Senza dimenticare i Thiago Motta e gli Eder. Ma nemmeno Romulo, che la maglia azzurra la sfiorò e dovette rinunciare alla vigilia dei mondiali di Brasile 2014 a causa di un infortunio avvenuto nel ritiro di preparazione.
La nazionale guidata da Roberto Mancini alla vittoria degli Europei 2020 ne ha annoverati ben tre: Jorginho, Rafael Tolói e Emerson Palmieri dos Santos. Adesso potrebbero raddoppiare e diventare sei. E ciò, al di là delle considerazioni etiche o delle valutazioni sui singoli calciatori, significa che il nostro sistema di formazione è al default.
Quasi non produciamo più talenti italiani. E basta guardare l’abuso di calciatori non italiani nelle formazioni Primavera per avere misura del fallimento. Una valanga di carneadi provenienti dall’estero e quasi totalmente destinati a tornarci, o a disperdersi nelle categorie inferiori del nostro calcio. Se rischiamo la seconda eliminazione consecutiva dai mondiali, non chiediamoci perché né illudiamoci che basti reclutare i João Pedro per risolvere il problema.
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