- Le posizioni “culturali” delle destre post fasciste sono dense di omissioni, tendenziose, prive di fondamento storico, ma sono paradossalmente favorite anche da alcuni presupposti normativi e dagli sviluppi delle pratiche del ricordo, sin dall’istituzione del Giorno della memoria.
- La memoria della persecuzione ha il dichiarato obiettivo di una generica educazione al rispetto di ogni differenza, ma non educa alla comprensione critica del nesso tra fascismo e persecuzione.
- In un contesto segnato dalla produzione e dal consumo mediatico di narrazioni diverse e dalla crisi dei vecchi “quadri sociali della memoria”, la fine della età dei testimoni della Shoah lascia il posto solo all’industria culturale.
Le posizioni “culturali” delle destre post fasciste sono dense di omissioni, tendenziose, prive di fondamento storico, ma sono paradossalmente favorite anche da alcuni presupposti normativi e dagli sviluppi delle pratiche del ricordo, sin dall’istituzione del Giorno della memoria. Di conseguenza, per una larga parte dell’opinione pubblica, il nesso tra il fascismo, cioè tra la distruzione della democrazia, e la persecuzione degli ebrei d’Europa rimane invisibile. Il conflitto che si è svolto a Pisa sulla revoca della via intitolata al rettore che applicò i decreti anti ebraici del 1938 (290 studenti stranieri, decine di italiani e 20 docenti espulsi) è un formidabile punto di attacco – «ansatzpunkte», scriveva Erich Auerbach – per comprendere.
Il caso di Pisa
La vicenda è nota (ne ha scritto qui Giorgio Meletti). Settembre 2018, convegno internazionale per l’ottantesimo delle leggi anti ebraiche siglate proprio a Pisa, nella villa reale di San Rossore: i rettori di tutta Italia assumono le responsabilità delle Università per le persecuzioni (il sindaco leghista non partecipa alla cerimonia).
Giugno 2021, sostenuti da Comunità ebraica, Anpi e oltre 20mila firme, i promotori scientifici inoltrano al sindaco la petizione di revoca; novembre, il consiglio comunale respinge. Gennaio 2022: i senati accademici di Università, Scuola normale superiore, Sssup Sant’Anna insistono; dicembre, una nuova petizione firmata da centinaia di cittadini è respinta.
Via D’Achiardi rimane, la rottura tra destre al governo della città e università diventa clamorosa e irreversibile. Ora, colpo di scena: il sindaco sconfessa la propria maggioranza, intitola la strada ai “Giusti delle nazioni” e uno spazio a Raffaello Menasci (uno dei docenti pisani inghiottiti dalla Shoah).
Assume le parole sulla ignominia delle leggi razziali pronunciate da Giorgia Meloni e crede che «il destino» gli offra l’occasione di «fare di più» dei precedenti sindaci di sinistra «nella commemorazione e nella lotta all’antisemitismo», ma nel suo discorso i cittadini italiani ebrei perseguitati nel 1938 divengono «il popolo ebraico» (dunque una identità etnica differente) e ogni nesso storico tra fascismo (distruzione della democrazia e dei diritti dei lavoratori) e persecuzione anti ebraica si volatizza.
Il punto di partenza
Riavvolgiamo il film della storia del Giorno della memoria, partendo da quest’ultimo fotogramma pisano. Esperimento illuminante. La legge 211/20 luglio 2000 sceglie – tra molte possibili – la data del 27 gennaio (liberazione del campo di Auschwitz) seguendo l’esempio europeo.
Secondo il dettato, il fine è commemorare eventi diversi, troppi però: le leggi razziali, la persecuzione italiana degli ebrei, la deportazione e l’opposizione al progetto di sterminio. Omissione grave: il fascismo non è neppure nominato. Ambiguità e omissioni hanno conseguenze, come dimostra Guri Schwarz: interpretazioni diverse della legge, pratiche commemorative difformi, tensioni tra istituzioni centrali e locali, attività delle scuole e della società civile di ogni tipo e qualità, mentre con il tempo tecniche e forme della comunicazione mediatica e spettacolare dominano sempre più i rituali della memoria.
Nella babele simbolica, le amministrazioni che per cause politiche non intendono rispettare la legge trovano modo di farlo, e chi ricorda e agisce lo fa nei modi più diversi: a Milano, ad esempio – scrive David Bidussa – nei primi anni il Comitato permanente antifascista segue il modello delle manifestazioni del 25 aprile, con evidente disagio di comune e regione governati dalle destre (ma incappa anche negli scontri tra antagonisti di sinistra e simboli della Brigata Ebraica); a Roma, la visione neo patriottica dei presidenti Ciampi e Napolitano enfatizza soprattutto la partecipazione degli italiani ebrei al Risorgimento e alla Resistenza.
Niente contesti storici
La svolta decisiva all’origine della situazione odierna interviene nel 2009: il governo Berlusconi istituisce un Comitato di coordinamento per le celebrazioni (sic) della Shoah, ma ne delega la direzione agli enti ebraici: l’Unione delle comunità, il Centro di documentazione ebraica, a cui anni dopo sono aggiunti il Museo romano della Shoah e il Meis di Ferrara. Quello che Yerushalmi chiama “l’imperativo del ricordo” viene così caricato sulle spalle delle vittime – che certo non ne hanno bisogno – e dei loro rappresentanti istituzionali, mentre i ministeri coinvolti, a partire dall’Istruzione, si limitano a funzioni di sostegno.
Diversamente che in altri stati, in Italia non viene mai pensato un piano centrale a cui incardinare la storia dei nessi tra persecuzione, fascismo e storia d’Italia, nonostante l’adesione alla cooperazione educativa europea sulla Shoah. Sulla scena rimangono solo vittime e occasionali salvatori (i giusti del sindaco), non i contesti storici e i sistemi fascisti.
Anarchia commemorativa
In un sistema commemorativo acefalo, l’egemonia dei media è inevitabile e diviene il riferimento cruciale anche delle scuole, dato che la didattica della Shoah, sino al 2018, rimane senza linee guida ministeriali, affidata alla spontanea iniziativa di docenti e dirigenti, culminata nei viaggi di pellegrinaggio, talvolta connotati da un’aura turistico-religiosa, ai campi di sterminio.
La memoria della persecuzione ha il dichiarato obiettivo di una generica educazione al rispetto di ogni differenza culturale, religiosa, politica o di genere, contro qualsiasi tipo di discriminazione, ma non educa alla comprensione critica del nesso tra fascismo e persecuzione.
In un contesto segnato dalla produzione e dal consumo mediatico di narrazioni diverse e dalla crisi dei vecchi “quadri sociali della memoria” (come li chiamava Halbwachs), la fine della età dei testimoni della Shoah lascia il posto all’industria culturale, in cui conta l’efficacia comunicativa, non il rigore critico.
Stampa, piattaforme digitali, documentari televisivi, talk show, film di animazione, radio, poli della memoria caratterizzati da soluzioni artistiche e tecnologiche di avanguardia e ogni tipo di fiction concorrono alla costruzione di una memoria fragile ed effimera, mentre l’ipertrofia comunicativa mira ad enfatizzare la dimensione emotiva. Così, indebolita la coscienza storica, si possono facilmente manipolare i documenti, sino ad inventare un passato mitico, favorendo la politica “culturale” delle destre.
Un passato mitico
Dopo la Resistenza, la delegittimazione dell’antifascismo fu l’effetto della continuità tra stato fascista e stato repubblicano. Negli anni Novanta fu la conseguenza della dissoluzione dei partiti repubblicani e della crisi delle istituzioni e della politica democratica, che condussero al potere le nuove destre anti fiscali, separatiste, liberiste, e aprirono la via del governo alla destra neofascista trasformatasi in destra post fascista. Oggi è l’effetto della invenzione mediatica di un passato mitico.
Nel trasformismo, del resto, si è espresso sempre il senso profondo dei trapassi di regime della storia d’Italia, come avvenne dopo il 1945. Anche la cosiddetta Seconda Repubblica si rivelò una pièce teatrale già giocata: nonostante le impegnative dichiarazioni sulle leggi razziali del capo di Allenza nazionale, presidente della Camera nel 2008, sulla scena tornò l’Arcitaliano e le responsabilità di fronte alla storia di cui le destre erano eredi non vennero assunte dai post fascisti di Alleanza nazionale.
Oggi rivendicano affinità impossibili con le tradizioni conservatrici, golliste o cattoliche e si affidano soprattutto al mito e alla tecnica comunicativa: il Msi, che, per cultura e dirigenza, fu l’erede diretto della Rsi collaborazionista dei nazisti, per Giorgia Meloni sarebbe stato il partito che «ha traghettato verso la democrazia milioni di italiani sconfitti dalla guerra» e ha «svolto un ruolo importante nel combattere la violenza politica» nel Sessantotto.
Questo sarebbe stato il partito di Giorgio Almirante, direttore della rivista antisemita La Difesa della Razza e orgogliosamente fascista ancora negli anni Ottanta (intervista a Giovanni Minoli); di Pino Rauti nemico del suffragio universale; di attori della violenza come Carlo M. Maggi, Carlo Cicuttini, Massimiliano Fachini, Massimo Abbatangelo… Celebra il Giorno della memoria, ma confida nell’oblio, la presidente del Consiglio.
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