- Nonostante questo amore per la parola, e per il raccontare, papà non ha parlato subito, ha tenuto per sé, a lungo, la valigia delle mille cose che avrebbe potuto dirci; come altri superstiti, ha avuto bisogno di tempo, di distacco. Troppo forte il trauma.
- Cosa hai visto papà su quella banchina, mi chiedo, cosa non ci hai potuto raccontare dell’abiezione dell’uomo, delle sue paure, del terrore, del suo impazzimento, quante cose non ci hai raccontato?
- Mio padre era lì. Avrà visto le stesse inconcepibili scene. Chissà come ha retto mio padre. Me lo chiedo spesso e me lo sono chiesto. Chissà cosa ha fatto e se e a quali compromessi è stato costretto, fin dove è arrivato, e chissà poi cosa ha pensato dell’essere umano.
Ora che il tempo, malvagio, tende ad ingiallire i ricordi, è sempre più difficile ritrovare, con la mente, la voce di mio padre che risuona forte dentro le stanze di casa, mentre racconta di sé, degli incredibili paesaggi della sua memoria, della cenere umana nell’aria e della fame. Mi concentro per risentire quel timbro profondo, quel profumo, e le parole così pesate che usava, per spiegare il dolore.
“Mamma”, per esempio, era una parola che gli inumidiva gli occhi, che non pronunciava sovente, se non raccontando di allora, oppure chiamando “madre” mia madre Rina, quasi fosse una reincarnazione della sua, anche se era invece sua moglie; come a trapassare completamente una storia ormai fisicamente estintasi, ricucendo la sua famiglia gasata, con quella nuova.
Le parole, le lingue, i calembour, la stratificazione dei loro significati e delle loro radici, sono stati il veicolo con il quale ha trasportato ogni rivolo della sua memoria; cosi come allora, ad Auschwitz, le lingue furono preziosissimi strumenti di sopravvivenza. Chi non capiva i comandi o le notizie, era più vicino degli altri alla morte, più fragile e solo, in quella giungla.
Nonostante questo amore per la parola, e per il raccontare, papà non ha parlato subito, ha tenuto per sé, a lungo, la valigia delle mille cose che avrebbe potuto dirci; come altri superstiti, ha avuto bisogno di tempo, di distacco. Troppo forte il trauma.
Fu in una sua conferenza nel 1977 che io ebbi le prime rivelazioni su quanto in parte già sapevo, ma non da lui. Anche se i segni della violenza sulla sua carne, la matricola sul braccio, e la nostra casa, con le mura foderate di libri, che, moltissimi, parlavano di Lager e riportavano fotografie indicibili, per lui avevano già, in parte, parlato. Così come nei primi anni parlarono per lui i suoi incubi e i suoi scatti d’ira improvvisi, e a volte i suoi pesanti silenzi e le sue lacrime.
A proposito delle sue lacrime, ricordo di aver letto in una lettera che scrisse, a Piero Terracina, ebreo romano sopravvissuto, anch’egli rimasto solo al mondo, poche settimane dopo il ritorno a Firenze, di essere tornato a vivere nella casa di via de’ Benci, e di aver li incontrato il postino, lo stesso di “prima”, che gli aveva candidamente chiesto, forse ignaro, se anche i suoi genitori fossero tornati, ottenendo ovviamente una risposta negativa.
Papà raccontava a Piero, che subito dopo, dopo che il postino se ne era andato, aveva avuto una crisi di pianto irrefrenabile sulle scale di casa, lì a metà strada tra Santa Croce e palazzo Vecchio, dove era cresciuto da bambino e dove poi aveva conosciuto l’odio di stato delle Leggi razziste e il silenzio indifferente dei vicini un tempo amici.
Una crisi di pianto di un giovanissimo uomo, che forse solo allora si rendeva conto dell’immensa solitudine nella quale era caduto; e forse quella solitudine, che in lui e in altri ha così tanto ritardato il racconto, non l’ha mai abbandonato, nonostante lo sconfinato esercizio di condivisione della sua storia che egli stesso ha prodotto negli anni. La solitudine anche di ricordi non condivisibili.
Non ha detto tutto
Ho maturato la convinzione in questi ultimi anni, che papà, ma credo anche altri, non abbiano raccontato proprio tutto tutto. Racconto spesso che un altro prigioniero sopravvissuto, Tadeusz Borowski, membro della resistenza polacca deportato ad Auschwitz, lavorava negli stessi giorni di papà nello stesso Comando Canada e nello stesso luogo, la banchina del treno di Birkenau.
Il loro “lavoro” consisteva nell’essere presenti al momento dell’arrivo dei prigionieri. Borowski narra nel suo Paesaggio dopo la battaglia, della sua insaziabile voglia di sopravvivere, e del costo morale che la sopravvivenza in quel luogo determinava. Il suo racconto è soprattutto concentrato sulle continue e quotidiane forme di compromesso e anche mercimonio di cui è puntellata la vita dei prigionieri che resistono, che sopravvivono, spesso a spese di coloro che soccombono, che sono meno forti, o meno rapidi nel comprendere le regole feroci della “sopravvivenza lageriana” come la chiama lui. Non nasconde nulla del meccanismo “mors tua vita mea” che era evidentemente spesso la religione imperante nel campo.
Il racconto mi colpisce al cuore, e mi paralizza, quando intrattiene sulle scene di inimmaginabile disumanità, all’arrivo di un treno di ebrei alla rampa, dove nel giugno del 1944, viene mandato a lavorare insieme agli ebrei del Comando Canada. Mio Padre lavorava lì, in quello stesso mese, su quella rampa, forse in quello stesso giorno, forse spalla a spalla con Tadeusz, e vide in quelle settimane, come dice Borowski, e come papà ha sempre raccontato, scomparire la gran parte dell’ebraismo ungherese. 400mila persone arrivate e deportate quell’estate dall’Ungheria e quasi tutte immediatamente gasate.
Cosa hai visto papà su quella banchina, mi chiedo, cosa non ci hai potuto raccontare dell’abiezione dell’uomo, delle sue paure, del terrore, del suo impazzimento, quante cose non ci hai raccontato? Magari per amore e per proteggerci, o perché ti faceva troppo male.
Non ci sono omissioni nel racconto di Borowski, nessun aspetto del comportamento umano viene taciuto, nessuna cosa vista là, nei pressi di quei carri bestiame, non le montagne di valigie, borse, sacchetti, abiti, non i gioielli, i preziosi o le banconote, nascoste nelle pieghe dei vestiti, che finivano nel borsone aperto del graduato SS di turno pronto a raccogliere ogni possibile bene prezioso per il mantenimento del Reich e della sua guerra, o magari dei suoi ufficiali e delle loro mogli, non le marmellate e i biscotti, immediatamente nascosti dai prigionieri del Canada affamati, non l’acqua o la vodka.
Non i corpi dei soffocati o storditi rimasti nei carri dopo che gli altri erano scesi, o degli storpi che non erano riusciti a saltare e che venivano trascinati giù dai vagoni e messi già insieme ai morti, da vivi. E neanche omette di raccontare dei neonati, vivi, morti, chissà, presi per i capelli a due alla volta per fare prima e scaraventati nel mucchio, o le esecuzioni direttamente fatte sulle banchine delle persone che impazzivano.
Una parte possibile di noi
Mio padre era lì. Avrà visto le stesse inconcepibili scene. Chissà come ha retto mio padre. Me lo chiedo spesso e me lo sono chiesto. Chissà cosa ha fatto e se e a quali compromessi è stato costretto, fin dove è arrivato, e chissà poi cosa ha pensato dell’essere umano. Di quel «trionfo postumo di Hitler» di cui parla Améry, di quella forza distruttiva postuma che tante vite fisicamente sopravvissute ha spezzato “dopo” nell’impossibilità di congiungere “dopo” quello che dell’uomo ridotto a puro bisogno di vita avevano visto “prima”.
Sento come di non aver potuto capire fino in fondo mio padre, perché non tutto quello che ha visto, ci ha potuto raccontare. Forse papà ha nascosto il lato più basso che erano stati costretti a toccare, o a vedere, e non ha voluto intaccarci con la scoperta di cosa possa raggiungere l’uomo quando la sopravvivenza si staglia come unico definitivo obiettivo da raggiungere. Quasi un segnale mi pare, quasi un testimone passato questo “non detto”, per dover scavare da solo e ancora, nella natura dell’uomo, indagare, continuare a cercare, ragionare e descrivere ogni singolo aspetto di quella parte di noi che fu il punto più basso raggiunto dall’uomo. Perché quel male è una parte possibile di noi, in fondo.
Non mi lasciare mai, sembra che mi dica la voce di dentro, non permetterti di dimenticarmi, di dimenticare tuo padre e quelle rovine fumanti che ha attraversato, io che sono la tua coscienza, erede di mille racconti, te lo dico, non abbandonare mai la voglia di entrare fin dentro i meandri più crudi dell’animo umano, fin dove ogni morale si è persa; sappi che sei figlio della forza sovraumana di chi non si è dato per vinto, di chi ha continuato a sperare. Sappi che sempre sarà che l’uomo può perdersi e abbattere ogni confine, sappi che sarà sempre battaglia comunque, per impedire che la lezione sull’uomo sia persa.
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