Oltre 215mila anziani non autosufficienti vivono in residenze sanitarie. Orari massacranti e salari bassi mettono in fuga infermieri e operatori
L’Italia è un paese dal futuro anziano, ma sembra non volersi preparare ad affrontarlo. Gli anziani non autosufficienti nel paese sono quasi 4 milioni, il 28,4 per cento della popolazione over 65. Di questi, secondo i dati Istat, al 1° gennaio 2022, oltre 215mila erano ospiti in Residenze sanitarie assistenziali.
Contare quante strutture si trovano sul territorio non è semplice. Ciò che si sa è che la media nazionale di posti letto, 18,8 ogni 1.000 abitanti, è piuttosto bassa rispetto ad altri paesi. Ma ciò che oggi manca nelle Rsa italiane sono soprattutto i lavoratori.
Negli ultimi anni, nello specifico a partire dalla pandemia, le strutture dedicate all’accoglienza degli anziani stanno vivendo un’enorme crisi di personale. Situazione che si traduce in carichi di lavoro sempre più pesanti che gravano su chi resta e quindi, inevitabilmente, anche un alto tasso di turnover.
«L’aumento di richieste di personale sanitario durante il Covid ha fatto sì che molti lavoratori delle Rsa potessero essere assunti negli ospedali, dove le retribuzioni sono più alte e le condizioni di lavoro sono diverse», spiega Michele Vannini, segretario Funzione pubblica Cgil. «Si parla di 36 ore lavorative settimanali contro le 38 sulle carta delle Rsa che però, a causa della carenza di personale, possono diventare molte di più».
A fotografare la situazione è l’osservatorio Long Term Care di Cergas – SDA Bocconi. «Secondo il nostro ultimo studio su 32 aziende partecipanti, in quelle che offrono esclusivamente servizi per anziani mancano il 18 per cento degli infermieri e l’11 per cento degli operatori socio-sanitari», spiega la coordinatrice Elisabetta Notarnicola. «Quindi la crisi nel settore anziani è decisamente più grave che nel settore sanitario in generale».
Le cause sono riscontrabili nella retribuzione oraria, considerata troppo bassa se comparata al carico di lavoro consistente dal punto di vista sia fisico sia umano (in media un infermiere che lavora in Rsa percepisce intorno ai 1.700 euro lordi, un oss può arrivare fino a nove euro l’ora); nella scarsa attrattività contrattuale e professionale del contesto Rsa e nella difficoltà di organizzare la propria vita privata.
«Gran parte del personale socio-sanitario è composto da donne che, per come è purtroppo ancora organizzata la nostra società, hanno spesso sulle spalle anche il carico familiare e questo non è sostenibile a lungo termine» prosegue Vannini. «È un cane che si morde la coda, perché più la gente se ne va, più il carico aumenta, e sempre meno persone vorranno accedere a queste professioni che però sono importantissime».
Sprofondo Italia
L’allarme viene da tutta Italia. Lo scorso 27 settembre i lavoratori hanno indetto uno sciopero nazionale per protestare contro il contratto collettivo nazionale Aiop rsa. A gennaio, i sindacati hanno lanciato l’allarme per la chiusura di 85 posti letto a Sondrio per mancanza di personale.
A fine febbraio i sindacati del Veneto hanno presentato tre studi che fotografano una situazione di carenza di posti letto, diminuzione consistente del tempo dedicato agli ospiti anziani, e un aumento delle rette.
Migep, Federazione nazionale degli operatori sanitari e socio-sanitari, ha partecipato a tavoli di lavoro con diverse regioni come Marche, Lombardia e Puglia per capire quanti operatori socio-sanitari fossero necessari ma, dice il coordinatore nazionale Angelo Minghetti, «spesso ci siamo sentiti dire che i numeri che proponevamo erano troppi. Ma sono i parametri a non essere definiti».
Anche in Trentino, un territorio relativamente piccolo con 41 strutture pubbliche e 5 private la situazione è precaria. «Il 22 per cento della popolazione ha più di 65 anni. Stiamo parlando di circa 150mila persone che rappresentano potenziali nuovi accessi alle case di riposo, ma i corsi per operatori socio sanitari sono sempre più vuoti e gli effetti tra qualche anno si vedranno eccome», spiega Roberto Moser, vicesegretario di Fenalt. «Il turnover è altissimo. In alcune strutture, soprattutto fuori dal centro, sulla carta dovrebbe esserci un infermiere ogni 10 posti letto, ma poi ci troviamo di notte un solo infermiere che deve occuparsi di 120 ospiti. Come sindacato abbiamo a che fare con situazioni allucinanti: turni massacranti, difficoltà a garantire due settimane consecutive di ferie estive, banca ore con 400 ore di straordinari. Le conseguenze ovviamente sono sempre meno assistenza, soprattutto specializzata, e quindi meno cure a disposizione. L’unica arma che abbiamo è cercare di ridurre il carico di lavoro e aumentare gli stipendi. Ma il carico di lavoro aumenta e gli stipendi non stanno al passo con l’inflazione. Abbiamo una bomba in mano, destinata ad esplodere».
Derive rischiose
Le conseguenze di tutto questo non sono difficili da immaginare. «Ai lavoratori non è garantito il fatto di poter dedicare tempo alla propria vita privata. Queste sono professioni in cui c’è bisogno di personale 24 ore al giorno, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno. E in un contesto di carenza di personale basta che accada un imprevisto a una persona che bisogna coprire il suo turno, saltano i riposi, viene meno la fiducia con il datore di lavoro».
Tutto questo sfocia in situazioni di stress, casi di burnout, affaticamento per i lavoratori. Derive rischiose, perché i destinatari dei servizi sono persone estremamente fragili e dipendenti dalla cura che viene loro offerta in struttura.
«Ci sono delle implicazioni sulla qualità dei servizi. Se sono un soggetto fragile e dipendo completamente dal fatto che qualcuno mi alzi dal letto, mi sposti, mi faccia mangiare, e ho a che fare con persone stressate e stanche costrette a saltare i riposi e occuparsi di tante persone contemporaneamente, il minimo è che si metta a rischio la qualità delle relazioni. E anche le tempistiche si allungano» continua Vannini.
«Il concetto che passa, pagando poco e trattando male il lavoro di cura, quello in cui ci si mette a disposizione degli altri, è che quel lavoro non ha alcun valore. Bisogna investire sul settore, qualificarlo, aprire un dibattito pubblico attento su come vogliamo che sia tra qualche anno, perché la popolazione anziana è destinata ad aumentare molto nei prossimi anni».
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