Le città italiane ospitano una popolazione in costante crescita, la cui espansione resta tuttavia in gran parte sottotraccia: quella degli anziani fragili e soli. È su questo gruppo di persone poco visibili – se non del tutto invisibili – sul piano delle politiche sociali e urbane che concentriamo l’attenzione in questo contributo.

I dati più recenti sulla popolazione italiana mostrano come il numero delle persone con oltre 74 anni di età eguagli oggi quello dei bambini e ragazzi sino a 14 anni.

Nonni e nipoti, verrebbe da dire, si eguagliano almeno nelle quantità, anche se i primi sono destinati ad aumentare e i secondi, purtroppo, a decrescere ulteriormente. A Milano, ad esempio, le persone anziane sono circa 65mila e rappresentano il 12 per cento dell’intera popolazione: circa una persona ogni otto. Il gruppo raddoppia se consideriamo le persone nella fascia 65-74 anni di età. Insieme, anziani “più giovani” e “meno giovani” fanno un quarto circa dei milanesi. Una quota pari a quella di tutti i bambini, ragazzi e giovani sino a 24 anni di età.

Città di anziani

Troviamo proporzioni simili, se non maggiori, nelle altre grandi città del nord Italia: a Torino la quota di popolazione con oltre 74 anni di età giunge al 14 per cento, a Genova e Venezia supera il 15 per cento. La quota di anziani resta elevata nel centro Italia (a Firenze è del 15 per cento), mentre cala a Roma (12 per cento) e nelle metropoli del sud, dove rappresenta per ora “soltanto” il 10 per cento della popolazione complessiva.

Essere anziani oggi è una condizione, dunque, assai diffusa. Per molti coincide con un’esistenza ancóra socialmente attiva e caratterizzata da elevata mobilità, da consumi relativamente cospicui, da piena integrazione sociale e relazionale, protetta dalla forte diffusione del nostro “pension welfare state” e da politiche sanitarie che mantengono ancóra, nonostante i radicali tagli finanziari subiti negli ultimi decenni, un approccio universalistico.

Tuttavia, con l’aumentare dell’età aumenta inesorabilmente la quota di persone che subiscono una perdita di autonomia e mobilità, che per alcuni sfocia in una condizione di disabilità.

Vita nelle Rsa

Le statistiche ci restituiscono un quadro preciso di questa situazione. I disabili totali, ovvero persone che hanno perso l’autonomia in una o più delle funzioni elementari della vita quotidiana (come alzarsi dal letto, vestirsi, andare in bagno e lavarsi, mangiare, muoversi dentro casa) e che di conseguenza necessitano di aiuto quotidiano, rappresentano il 5 per cento nella fascia 65-74 anni, il 14 per cento nella fascia 75-84 anni e ben il 41 per cento nella fascia oltre 84 anni di età (Istat 2019).

È – o meglio dovrebbe essere – questo il target delle politiche sociosanitarie di assistenza, volte a garantire a tali persone condizioni dignitose di vita, ritardando quanto più possibile la loro istituzionalizzazione e fornendo loro l’aiuto quotidiano domiciliare di cui necessitano.

È a queste persone, una volta che non siano più in grado di invecchiare a casa propria, che si rivolge anche il mondo, poco documentato, delle Rsa e delle strutture residenziali specializzate nell’accogliere e trattare persone con gravi deficit funzionali o cognitivi.

Un mondo che è finito sotto i riflettori al tempo delle prime due ondate pandemiche a seguito della “strage nascosta” di molti ospiti, strage poi contenuta e di fatto evitata con l’introduzione dei vaccini e di stringenti misure di segregazione degli ospiti.

La vita ristretta

La disabilità rappresenta la parte relativamente più visibile e nota del problema, anche se l’assistenza nel nostro paese è molto ridotta e di qualità modesta, costringendo le famiglie a “fare da sé” oppure ad alimentare il fiorente mercato, ancora largamente irregolare, degli assistenti familiari privati.

A fianco di queste persone in estremo stato di bisogno, tuttavia, c’è la realtà assai più diffusa degli anziani fragili: persone che, non necessariamente in seguito a patologie invalidanti ma spesso soltanto per il peso dell’età, perdono importanti gradi della loro autonomia, pur mantenendosi indipendenti nello svolgimento delle principali funzioni elementari della vita quotidiana.

Magari possono mangiare da soli, ma non riescono a cucinare o a fare la spesa. Sono capaci di muoversi nella loro abitazione con sufficiente sicurezza, ma hanno difficoltà a uscire, anche solo nel proprio quartiere. Faticano a gestire cure e salute, e a occuparsi della gestione amministrativa della casa e delle loro risorse finanziarie, esponendosi così a truffe o raggiri di varia natura.

Mantengono relazioni con i familiari, laddove presenti, ma perdono progressivamente quelle con i loro coetanei, che muoiono oppure sono afflitti da condizioni simili. È come se, per queste persone, la realtà circostante, lo spazio realmente vivibile, le reti di relazione, subissero un restringimento e/o un accorciamento che le rende fruibili soltanto a certe condizioni.

Invisibili

E al restringimento dello spazio di vita si accompagna una maggiore centralità della prossimità, di ciò che resta vicino e ancora facilmente accessibile, sia fisicamente che simbolicamente. La casa in cui si dimora, l’edificio entro cui si è collocati e il quartiere in cui si risiede diventano gli spazi fondamentali della vita quotidiana, da cui dipende la qualità umana e sociale dell’esistenza.

Sono questi anziani fragili, non ancora disabili, i veri invisibili. Quelli che più facilmente sfuggono alle misurazioni, all’occhio degli urbanisti e degli scienziati sociali, all’attenzione dei policy maker. Sono persone che spendono gran parte del tempo all’interno delle loro abitazioni, escono di rado e solo nelle immediate vicinanze, accedono ai servizi, per lo più sanitari, facendosi accompagnare da un parente o dall’assistente familiare.

Al tempo stesso mantengono un forte legame con il vicinato, presidiano il territorio dalle finestre e dalle panchine dei giardinetti, contribuiscono a mantenere aperte le piccole attività commerciali collocate nel loro quartiere.

Fragili

La fragilità è una condizione meno chiaramente definibile e misurabile della disabilità vera e propria. È uno stato in divenire, colpito da processi progressivi di regressione cui si può reagire soltanto attraverso forme di resistenza attiva e passiva. Uno stato che l’organizzazione dello spazio domestico, abitativo e urbano può condizionare fortemente, come vedremo, agendo da ulteriore ostacolo oppure da sostegno di natura protesica.

Una definizione provvisoria, utile per fare alcune riflessioni di tipo statistico, considera fragili le persone che, pur pienamente autonome nello svolgimento delle principali funzioni di base prima richiamate, non lo sono del tutto nell’assolvere a funzioni un po’ più complesse ma ugualmente necessarie per la vita quotidiana.

Sono le Iadl (Instrumental Activities of Daily Living), come preparare i pasti, effettuare lavori domestici, assumere farmaci, uscire di casa per piccole incombenze, gestirsi economicamente, utilizzare un cellulare o altri dispositivi digitali. Più precisamente, possiamo definire come fragili quelle persone che, per condizioni fisiche o psichiche, hanno forti difficoltà con almeno due di queste funzioni (ad esempio: uscire di casa o gestire l’amministrazione).

Quanti sono

Questa semplice definizione, peraltro molto restrittiva, aiuta a misurare le dimensioni del fenomeno. Utilizzando i dati dell’Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione Europea (Istat 2019) possiamo fare qualche stima.

In Italia gli anziani fragili (né perfettamente attivi né disabili) rappresentano il 9 per cento circa nella fascia 65-74 anni, il 20 per cento nella fascia 75-84 anni (1 su 5), e ben il 33 per cento nella fascia oltre 84 anni di età (1 su 3).

Applicando queste quote alla popolazione di Milano e includendo anche i disabili veri e propri, si ottiene una popolazione di circa 16mila anziani che, per diversi motivi, sono prevalentemente costretti dentro le loro abitazioni, con mobilità molto limitata, e richiedono assistenza quotidiana da parte di qualcuno.

Una fetta relativamente piccola della cittadinanza (circa l’1,1 per cento), ma che comporta non solo la mobilitazione di ingenti risorse economiche e umane, ma anche spazi adeguati alle loro esigenze.

L’anticamera della morte

Nei prossimi anni l’invecchiamento della popolazione farà aumentare queste cifre in modo quasi esponenziale, quando entreranno in questa fase della vita i baby boomer degli anni Cinquanta-Sessanta, ovvero coorti molto numerose di popolazione, con livelli di istruzione e di reddito più elevati delle precedenti, stili di vita innovativi, elevate abilità digitali, carriere lavorative meno impegnative sul piano fisico e, dunque, anche alte aspettative di vita.

Per questa armata di anziani fragili e invisibili la sfida principale sarà quella dell’ageing in place. Ovvero, quella di invecchiare bene a casa propria. Non c’è inchiesta che manchi di segnalare come il desiderio più diffuso tra le persone anziane sia quello di restare il più a lungo possibile autonome e dentro le proprie mura domestiche.

L’istituzionalizzazione nella Rsa non piace, viene percepita come l’anticamera della morte (la prima sepoltura che l’individuo deve subire quando è ancora in vita, afferma un noto studio francese). Anche la ri-coabitazione con un figlio o una figlia (la strategia tradizionalmente più diffusa in passato) viene rifiutata sia per non appesantire i figli sia perché si è orgogliosi di una indipendenza conquistata cui non si vuole rinunciare.

Neanche la demografia incoraggia a perseguire questa seconda strategia: i maggiori livelli occupazionali delle donne delle generazioni successive ai baby boomer, così come la drastica riduzione nel numero dei figli tipica di un paese a bassa natalità come il nostro, non consente più di delegare alla famiglia la soluzione dei problemi abitativi e di accudimento degli anziani fragili.

Da qui nasce l’elevata propensione degli italiani a impiegare un assistente familiare privato (“badante”): una soluzione a portata di mano, economicamente sopportabile per molti anziani (ma non tutti), resa possibile dalla disponibilità di un esercito di persone immigrate che accettano orari prolungati di lavoro (sino alla soluzione del 24/7, ovvero un impiego fisso per tutto l’arco della giornata, tutti i giorni della settimana) e da una certa disponibilità di spazi nelle abitazioni delle persone assistite.

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