Attraverso due scene di tensione di film molto recenti si capisce come il tè e le sale da tè occupino un posto nell’immaginario collettivo, uno esclusivo che gli abbiamo dato noi
Il tè, le sale da tè e tutto quello che gira intorno al salotto cortese nei film è uno strumento di tensione. Se è vero che esistono due tipi di violenza, una più gretta, materiale e fisica, e una ugualmente terribile ma psicologica, che non necessita di contatto, il tè nei film è diventato negli anni una delle armi predilette per la seconda.
Film e serie hanno legato al tè, alle camomille e ai caffè conviviali le battaglie dialettiche. Al cinema una scena che coinvolge l’assunzione di tè facilita e rende plausibile la conversazione, è uno scenario come altri in cui è facile mettere a sedere i personaggi ed è plausibile farli parlare. E per il meccanismo del contrasto nulla funziona di più accanto a una tazza di tè, così raffinata e sofisticata, di qualcosa che è al suo opposto, che dalla calma apparente crea violenza e tensione sottotraccia. Già nei salotti vittoriani inglesi quando si ambientava una scena all’ora del tè era perché qualcuno venisse metaforicamente ucciso, era il momento in cui, con molti giri di parole, si vedeva chi conta qualcosa e chi non conta nulla in cui venivano svelati segreti e in cui si tremava per qualcosa che poteva o non poteva venire detto.
Sottile tensione
L’immaginario collettivo riguardo al tè quindi parla di questo: di una sottile tensione che può esplodere in ogni momento. In Scappa - Get Out, un horror psicologico del 2017 di Jordan Peele, si trova forse il miglior uso del tè come arma. Nella trama un ragazzo afroamericano passa alcuni giorni nella casa di campagna della famiglia, ricca, della sua fidanzata bianca. I genitori di lei sono democratici e progressisti, molto a favore dell’unione dei ragazzi, ma qualcosa non va durante quel soggiorno, c’è un sottile senso di inquietudine.
Una notte la madre della ragazza seduta in salotto con una tazza di tè invita il protagonista a sedersi, scambiano delle parole e lei usa il rituale del cucchiaio girato, insieme al rumore che produce con insistenza e regolarità, per ipnotizzarlo e immobilizzarlo. È il momento in cui il film fa il salto definitivo nel genere della tensione pura, e lo fa con il tè. Lo stratagemma si fonda proprio sul senso di tranquillità e di riposo che una persona che sorseggia del tè infonde, messo a contrasto con la crescente paura dell’ipnosi che avanza e le evidenti malevoli intenzioni. Intrappolato nella sua mente il protagonista vede il tè che gira ed è schiavo di quel suono.
A subire quel momento è Daniel Kaluuya, che con questo film diventò famoso e poi qualche anno dopo vinse un Oscar per Judas And The Black Messiah, anche se è Get Out il film in cui mostra di meritarne uno. Quella scena in particolare è tutta fondata sulla recitazione (e la gestione dei tempi). La cosa non stupisce perché fare una scena di tè o di caffè raffinato vuol dire fare una scena di dialoghi e quindi di recitazione, una di quelle in cui gli attori devono dire una cosa e intenderne un’altra. Magari opposta. Lo sa bene chi ha visto Bastardi senza gloria. Il film del 2010 di Quentin Tarantino, ambientato in Francia durante l’occupazione nazista, ha una scena in una sala da tè che coinvolge cucchiaini che girano, strudel che vengono serviti con o senza panna e un ufficiale nazista che fa delle domande a una proprietaria di cinema che nasconde il fatto di essere ebrea.
Al contrario di Get Out in quel film c’è molta gente intorno ai personaggi. È un luogo pubblico ben frequentato, d’alto rango, e tutto si svolge di giorno. Tutto è rassicurante. Viene servito un strudel che il colonnello delle SS Hans Landa assicura essere eccezionale, lui è mellifluo e premuroso. Galante. Mentre in Get Out girare il cucchiaino suona da subito come un ribaltamento di qualcosa di tranquillo in qualcosa di terribile, in Bastardi senza gloria il gioco di contrasto è ancora più estremo.
Non c’è niente in tutta la scena, nemmeno la recitazione di Christoph Waltz (premiato con l’Oscar per questo film) e Melanie Laurent, che suggerisca tensione. Eppure il miracolo è che c’è. Tarantino adora mettere nei suoi film il piacere dei personaggi per il consumo di cibo e bevande, qui il colonnello è in visibilio per lo strudel con panna che servono all’ora del tè. Gira il cucchiaino e porta avanti all’infinito un dialogo continuamente interrotto da un assaggio, un’ordinazione o un sorso. Fa domande generiche mentre il pubblico è terrorizzato all’idea che lui in realtà abbia attirato lei lì perché ha scoperto che Shosanna è ebrea.
Un doppio livello
C’è un doppio livello in questa scena: Tarantino riesce a creare nella nostra testa un’equivalenza tra il piacere che il nazista mostra di provare di fronte a quel momento di cibo e bevande, così raffinato, e il piacere evidente che Tarantino stesso prova nello scrivere e dirigere quella scena di dialogo così perfetta. Entrambi, il nazista Hans Landa e il regista e sceneggiatore Tarantino, stanno gustando quel momento e lo vogliono prolungare. Quando il cucchiaino viene girato per esitare un altro po’, quando la conversazione è interrotta perché bisogna aspettare che arrivi la panna per completare la goduria, si sta prolungando anche il piacere di quel momento di cinema così perfetto e fantastico da vedere.
Sono scene diverse ma a uscire nella stessa maniera è l’atto stesso di sorseggiare da una tazza (caffè o tè che sia), di ritagliare un momento di convivialità particolare, che non è una cena e non è un pranzo, che può svolgersi a tavola ma non ha niente a che vedere con le immagini e le idee che associamo ai pasti principali. È una differenza narrativa più che reale, i pasti nella realtà sono pratiche abbastanza simili e la convivialità non è troppo diversa, è semmai il cinema che ha bisogno di creare convenzioni e momenti utili ai suoi obiettivi, cioè imbastire una relazione, far scontrare persone, mettere paura, far ridere ecc. ecc. Nel momento in cui il tè ha iniziato a scandire momenti della vita sociale, a entrare nella società occidentale con una funzione precisa e un momento della giornata a sé dedicato, le storie se ne sono impadronite. Avide di convenzioni e capaci di dare a qualsiasi cosa un significato, di incollare a una pratica, un’immagine o un cibo in questo caso dei valori e dei toni.
Quando Jordan Peele in Get Out sceglie una tazza di tè sta dicendo al pubblico che questa famiglia bianca è proprio con le armi della sua raffinata sofisticatezza che incastra il protagonista afroamericano, e che proprio questo gusto altoborghese, cioè il bere tè alla sera e l’essere democratici e progressisti, può essere un’arma e non bisogna fidarsi. Non sarebbe stato lo stesso con qualsiasi altro alimento che non avesse già legato a sé un immaginario di educata compostezza. Quando invece Tarantino in Bastardi senza gloria sceglie proprio una sala da tè per questo scontro di parole, in cui un’ebrea nasconde se stessa e mente al terribile detective nazista, sta dicendo che il cinema fatto bene (che per lui è il suo) è come un pasto perfetto all’ora del tè che si consuma nel posto più raffinato possibile (il cinema), cioè una goduria da assaporare con calma.
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