Immagina di dover essere reperibile ogni giorno. Pensa a come sarebbe la tua vita se dovessi fornire anticipatamente, ogni tre mesi, la pianificazione dettagliata dei tuoi spostamenti specificando dove sarai e per quanto tempo. Non solo nei giorni lavorativi ma anche nei finesettimana, durante le vacanze, a Natale, a Capodanno. Non solo in orario di lavoro ma dalle cinque del mattino alle undici della sera.

Ipotizza che ogni variazione rispetto al programma vada comunicata all’autorità competente con almeno 24 ore di anticipo. Considera che al centro della pianificazione quotidiana ci debba stare una speciale finestra di 60 minuti in cui accetti di subire un controllo. Se il rintracciamento non funziona, la responsabilità è sempre tua: la prima volta ricevi un richiamo pubblico e, se si ripete, alla terza devi scontare due anni di sospensione dall’attività lavorativa. Potrebbe sembrare lo scenario distopico di una società futura oppure la strategia di sorveglianza escogitata per una prossima pandemia, no tutt’altro. È un sistema di monitoraggio attivo già da un quarto di secolo e che riguarda una nicchia particolare di persone, talvolta ammirate e amate, talvolta invidiate e criticate ma innegabilmente impegnate e perciò particolarmente preziose sempre che, in questo nostro tempo, possa rappresentare ancora un valore. Sono persone che vivono una condizione particolare, di dedizione totale che difficilmente lascia spazio ad altro, affetti compresi, durante un lungo periodo che consuma i migliori anni della gioventù e della maturità: un’applicazione esclusiva, precoce e intrisa di fragilità che, nell’organizzazione del sistema a cui appartengono, cercherebbe protezione ma trova vulnerabilità.

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Si chiama Whereabouts system ed è il programma di sorveglianza degli atleti di alto livello creato per proteggere l'integrità dello sport. Un passo importante nella lotta al doping, compiuto per salvaguardare il senso dell’agonismo ma che ha introdotto una forte criticità in cui i doveri dell’atleta confliggono con i diritti della persona. Per capire la complessità del modello organizzativo antidoping bisogna familiarizzare con diversi acronimi. Nel 1999, per volontà del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) nasce la WADA (World Antidoping Agency), fondazione a partecipazione mista (pubblico-privata), un organismo esterno al sistema sportivo dunque credibile nell’esercitare l’attività di controllo: è sua responsabilità il Codice mondiale antidoping (su cui si basa tutto il programma mondiale antidoping anche di federazioni e comitati olimpici nazionali), controlla 30 laboratori di analisi e delega il lavoro operativo alle sue diramazioni territoriali, le organizzazioni nazionali antidoping (NADO).

Ogni atleta tesserato può essere sottoposto ai controlli. Al crescere di categoria e prestazioni i test aumentano di frequenza. Ogni gara prevede controlli fissi per i vincitori e a sorteggio. Salendo ancora più su si arriva all’elenco RTP nazionale ovvero il Registered Testing Pool in cui entrano, secondo precisi criteri, gli atleti di altissimo livello. È questa la lista di coloro che entrano nel Grande Fratello del Whereabouts e che possono essere sottoposti ad analisi in qualsiasi momento oltreché nelle occasioni ufficiali delle competizioni.

Ogni atleta RTP ha una casella PEC per comunicare col sistema e scarica sul proprio cellulare l’Athlete Central, la speciale app della WADA che facilita gli atleti nella comprensione dei loro obblighi derivanti dalla compilazione dei Whereabouts (sebbene, ogni anno, l’atleta sia tenuto a completare un corso di formazione appositamente previsto nell’Education Program NADO). La gestione dei dati avviene tramite ADAM (Anti-Doping_Administration and Managemenet System) una piattaforma che centralizza le informazioni del whereabouts e le salva insieme allo storico dei test, il passaporto biologico (ABP), le esenzioni terapeutiche (TUE). Oltre ai regolamenti sportivi ci sono poi le leggi statali in materia: in Italia vige la 376/2000 per cui l’atleta, trovato positivo, oltre che dalla giustizia sportiva è perseguibile anche penalmente. Ma a sintesi di tutto ciò, che cosa importa veramente all’osservatore esterno?

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La fiducia, quel rapporto da consolidare, recuperare o costruire dopo decenni in cui lo sport è passato sotto le forche caudine di scandali doping o presunti tali. Il pubblico appassionato, i simpatizzanti ma anche gli scettici, i refrattari, condividono tutti una relazione con la fiducia nell’integrità dello sport, con la differenza che per i primi è positiva mentre per i secondi no. E comunque anche chi nutre fiducia sotto sotto pensa che però qualche aiutino lo prendono tutti, altrimenti come ce la fanno a fare quei risultati?

Alcuni spunti di riflessione sulla credibilità delle prestazioni sportive, in relazione alla validità delle procedure antidoping, per chi vorrà poi approfondire. L’efficacia scientifica delle analisi non può che essere considerata un punto di forza: il sistema dimostra di funzionare fin troppo bene tant’è che oggi, al centro dell’attenzione, c’è il tema della falsa positività da contaminazione ovvero il rilevamento di una presenza infinitesimale e insignificante ai fini della prestazione, che porterà a un già annunciato cambiamento delle regole sulle relative squalifiche (altro punto delicato nella fiducia verso il sistema); ma la coerenza nell’applicazione delle pene passa anche attraverso fasi di rottura col passato, di aggiornamenti dettati dai diversi casi e dalla frequenza con cui si presentano. Anche della terzietà non è dato dubitare: la WADA è finanziata per metà dal CIO e per metà dai governi degli Stati membri, il che significa che le decisioni e le politiche sono il risultato di una collaborazione tra le due parti, scollegate da qualsiasi disciplina e perciò senza alcun interesse diretto sugli esiti dei test che esegue.

Ma è il Whereabouts il punto di forza formidabile del sistema antidoping, assolutamente coerente con l’obbiettivo di sorvegliare e irrompere nella vita dell’atleta. Una gabbia strettissima che non concede spazi di manovra a chi è male intenzionato, perlomeno non senza la complicità di qualcun altro. Se l’integrità dello sport si misura nell’efficienza dell’antidoping la battaglia è stata vinta, la fiducia nella credibilità delle prestazioni è salita al suo massimo storico.

In questo senso chi scredita la WADA (oltretutto senza suggerire un’alternativa) non fa un buon servizio alla causa e alla fiducia che gli atleti devono riporre in essa. Le criticità stanno piuttosto nella totale esclusione dell’atleta da tutto il procedimento che lo coinvolge; nella vulnerabilità della lunga catena di passaggi che vanno dalla produzione del campione biologico, al test, alla conservazione dello stesso; nell’impossibilità di avere contezza di quanto lo riguarda e di reagire a un provvedimento ingiusto se non sostenendo costi proibitivi ai più.

E ancora le criticità stanno nella severa morsa chiusa sull’atleta che, per quanto protagonista, rimane l’anello debole della catena del sistema sportivo in generale e dell’antidoping in particolare: troppo spesso è l’unico soggetto a pagare, anche per errori altrui o indotti, che dal doping di Stato (tanto a Est quanto a Ovest) passando per le contaminazioni e i complotti, hanno visto mietere molte vittime sacrificali. La sfida futura sarà trovare un equilibrio tra controllo e rispetto perché ad oggi, la credibilità della prestazione si paga a un prezzo troppo caro.

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