Il sitting volley, la pallavolo che si gioca da seduti a terra, è l’unico sport di squadra che, a Parigi, vede in campo i colori azzurri. A meritarsi la partecipazione, raggiunta grazie alla vittoria nel campionato europeo, sono state le donne. Un team di atlete dalle storie diversissime
Per migliorare l’equilibrio l’accorgimento più semplice è abbassare il baricentro. In fisica lo si definisce come lo stato che si realizza quando la proiezione del centro di massa cade all’interno della superficie di appoggio. Dunque, se ci si siede tutto è più facile, perché i due punti coincidono. Perciò stare seduti è anche la posizione preferibile per meditare e trovare quella condizione chiamata centratura che corrisponde a equilibrio interiore, calma, connessione col presente.
Abbiamo chiuso i Giochi olimpici con l’immagine gioiosa della pallavolo e il richiamo di Julio Velasco al qui e ora come strumento vincente. E siamo ripartiti con l’equivalente paralimpico, il sitting volley, la pallavolo che si gioca da seduti a terra, l’unico sport di squadra che, a Parigi, vede in campo i colori azzurri.
A meritarsi la partecipazione, con la qualificazione raggiunta grazie alla vittoria nel campionato europeo, sono state le donne. È un team di atlete dalle storie diversissime ma accomunate dalla stessa scelta di abbassare il baricentro fino a portarlo a terra per ritrovare, giocando, l’equilibrio interiore. Hanno scelto di sedersi per centrarsi, per sfrondare il superfluo, connettersi col proprio sé nell’hic et nunc e affrontare la disabilità come fosse una partita.
Le regole
Nel sitting volley non ci sono categorie come in altre discipline paralimpiche. Al contrario esiste una lista di patologie, disfunzionalità e disabilità che permettono alle persone che ne soffrono, di fare parte di un’unica squadra. Può apparire una sottile differenza ma non lo è! Spostando l’attenzione della selezione su ciò che include piuttosto che esclude, i problemi diventano quasi dei requisiti di accesso. Perciò in campo, nello stesso team, convivono atlete con problemi diversissimi, dall’esterno visibili o invisibili. Anzi a livello di campionato nazionale il regolamento consente a persone con e senza disabilità di giocare insieme.
Per la pallavolo, lo sport più diffuso a livello scolastico, più praticato dalle donne in Italia, la versione paralimpica risulta la migliore miscellanea di sensibilità e opportunità per entrare nella consapevole visione che la disabilità è una condizione latente per tutti: un’evidenza di cui si farebbe volentieri a meno ma un’opportunità per scoprire qualcosa di se stessi, delle relazioni, della vita che ancora non si conosce.
Anche sedersi a terra per giocare a volley può aiutare a capire che abbassare, ridurre implica lasciare qualcosa ma permette di trovare qualcos’altro. E da questa prospettiva ognuna delle straordinarie atlete che stanno giocando il torneo paralimpico avrebbe una sua metamorfosi e una sua filosofia sui limiti e le barriere da condividere. C’è però tra le dodici, la più anziana del gruppo la cui esperienza ricorda la trama di un film.
Tornare a toccare palla
Chi ha visto Lezioni di piano ricorderà quel dolore lancinante provocato dalla scena in cui la protagonista subisce l’amputazione del dito: il trauma fisico amplificato per la separazione dalla passione della vita, suonare, che si immagina irrimediabilmente perduta. Ecco, la storia di Eva Ceccatelli è la declinazione sportiva di quella trama.
Eva era una giocatrice di pallavolo, una palleggiatrice che militava in serie A. La sua carriera sportiva sembrava scolpita nella pietra e invece, a 25 anni, compaiono i primi sintomi della malattia, la sclerodermia. Una patologia autoimmune che provoca la sclerotizzazione della pelle e del tessuto connettivo.
Tra i vari sintomi, Eva si è ritrovata subito a gestire una cancrena alle dita che ha lasciato segni pesanti tra cui, l’impossibilità di distenderle. Accettare la malattia, impegnarsi per rallentarla e insieme chiudere un capitolo fondamentale della vita, la pallavolo. Un dolore nel dolore, una sfida nella sfida. Solo molti anni dopo, metabolizzato il trauma e trovato un equilibrio nella gestione della patologia, la vita apparentemente ridotta le apre la possibilità di scoprire nuovi orizzonti e ricominciare a giocare.
Come nel film, Ada, la protagonista, torna a suonare grazie a una protesi metallica, così Eva, la schiacciatrice della nazionale paralimpica, può tornare a toccare la palla grazie a uno speciale tutore.
Intersezionalità
Si possono fare cose diverse nello stesso modo o trovare nuovi stimoli e diverse modalità per riprodurre le stesse azioni. Gli eventi drastici aiutano talvolta a rendere più evidente il cambiamento che caratterizza la vita in ogni istante: chi esercita l’equilibrio interiore, abbassando il baricentro di un’esistenza sovraesposta ai bisogni indotti lo impara prima e sa affrontalo meglio.
La traiettoria tracciata da Eva Ceccatelli interseca le rotte disegnate dalle sue compagne più giovani e formano una rete, come quella del loro amato sitting volley, che ha permesso la nascita di nuovi sogni ma in cui si impigliano anche i problemi da cui lo sport paralimpico non è esente, anzi.
Un reticolato che ben rappresenta quel fenomeno, chiamato intersezionalità, che descrive la tendenza all’interazione di più discriminazioni. Così non deve meravigliare che lo sport per persone con disabilità riproponga le stesse discriminazioni che l’altro mondo parallelo, dello sport per persone senza disabilità, ha conosciuto e in parte conosce tuttora.
Ad esempio il sitting volley nasce nel 1956, esordisce ai Giochi paralimpici nel 1980 ma viene aperto alle donne solo nel 2004. Oppure, come indicano i dati Istat, le persone con disabilità che in Italia fanno sport sono solo il 9,1 per cento (sempre più gli uomini delle donne). Ciò accade nonostante le evidenze positive della pratica che dovrebbero suggerire politiche di accessibilità più efficaci.
Gli stessi dati Istat dimostrano che il 75 per cento (di quell’esiguo 9 per cento) è soddisfatto della qualità della propria vita, contro il 2 per cento di coloro che non praticano. Ciò per dire che anche nel mondo paralimpico c’è un problema di genere e essere donna offre minori opportunità e espone a maggiori difficoltà di quante già la disabilità non crei.
Le sfide
Ci sono poi le sfide comuni quelle che Eva e le sue compagne combattono per tutti come la sensibilizzazione per agevolare coloro che fanno attività agonistica di alto livello, affinché possano conciliarla col lavoro. Perché uomo o donna, se sei un atleta paralimpico per pagare le bollette devi fare anche qualcos’altro e allora si è cercata la soluzione calando il modello olimpico dei gruppi sportivi militari. Peccato però funzioni solo per i singoli come rivela la chiave di lettura della crisi dello sport italiano di squadra (tutto, non solo paralimpico) rispetto a quello individuale.
Un piccolo benefit però è arrivato: oggi le atlete Giulia Bellandi, Francesca Bosio, Raffaella Battaglia, Roberta Pedrelli, Giulia Aringhieri, Sara Cirelli, Eva Ceccatelli, Flavia Barigelli, Sara Desini, Alessandra Moggi, Silvia Biasi, Elisa Spediacci possono essere assenti giustificate dal lavoro per esercitare attività agonistica e non devono più usare le proprie ferie (sempre che il lavoro sia da dipendente) per potersi allenare o per gareggiare.
In compenso, se vinceranno una medaglia il premio in denaro sarà il 70 per cento di quello delle colleghe olimpiche nonostante le difficoltà aggiuntive. Per non scivolare sul terreno viscido dell’iniquità, le si chiede ancora una volta di abbassarsi, magari sedersi a terra e cercare il proprio centro.
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