«Guardiamo alla nuova direttiva europea con interesse anche se non è stata partorita come era stata concepita. Intanto i rider dovrebbero essere inquadrati come subordinati. Ci auguriamo che andremo verso una stagione in cui – anche se non mi sembra che in Italia ci siano le premesse – diamo finalmente a questi lavoratori le tutele che meritano». È la speranza di Roberta Turi, segretaria nazionale di NIdiL Cgil (Nuove identità di lavoro), che in questi anni sta portando avanti numerose lotte sindacali per i diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali di consegna, quelli che chiamiamo rider. Lavoratori che sono in una condizione di fragilità per diversi motivi.

Spesso sono ragazzi stranieri senza documenti e questo permette di non inquadrarli all’interno di un contratto di lavoro subordinato che prevede tutele come i giorni di malattia pagati, garanzie per il licenziamento o per gli infortuni. Anche per chi ha i documenti c’è il problema di una condizione di lavoro spesso a collaborazione occasionale o a partita iva, che presenta le stesse problematiche.

In questo contesto «spesso si inserisce anche il problema del caporalato e degli account fasulli che non ci potrebbero essere in caso di rapporto subordinato» spiega ancora Roberta Turi. Finora, l’unica azienda di delivery che ha accettato di rendere i rider lavoratori subordinati è stata Just Eat, che copre soltanto una parte del mercato non preponderante.

Sosta rider

La nuova direttiva approvata dal Consiglio dell’Unione europea – che prevede, tra le altre cose, un monitoraggio per avere un equo funzionamento dell’algoritmo delle piattaforme e un rapporto lavorativo che garantisca le giuste tutele – è un passo verso l’acquisizione di questi diritti, con la speranza che i singoli stati membri la recepiscano a pieno e in breve tempo (hanno tempo due anni).

Intanto, in varie città italiane, si stanno attivando o sono già attivi servizi di supporto all’attività dei rider.

È il caso di Torino, dove è stato attivato il progetto Sosta rider, presentato lunedì 16 dicembre con la proiezione del documentario Anywhere anytime, che racconta le difficoltà di un ragazzo arrivato a Torino senza documenti che si trova a fare il rider.

Al progetto torinese – nato dalla collaborazione tra Arci Torino e la sezione locale di NIdiL Cgil, sulla scia di iniziative già in corso – hanno aderito 21 circoli Arci che offriranno spazi per riposarsi, andare in bagno, ricaricare telefoni e biciclette dalle 9 del mattino fino alle 3 di notte circa.

«Stiamo cercando anche di capire se riusciamo a dotare qualche spazio di attrezzi che possano garantire la riparazione della bicicletta» spiega il vicepresidente Arci Torino Daniele Mandarano.

L’idea è partita in concomitanza con un percorso già attivo con i sindacati e dall’identità stessa dei circoli: «Noi siamo una rete di spazi e di associazioni che vivono la città, quindi non siamo esenti da quello che ci capita intorno. Hanno segnalato più volte i circoli stessi questa problematica di una mancanza di spazi per i rider».

Le altre esperienze in Italia

Torino non è però l’unico esempio di servizi di questo tipo in Italia. Il primo è stata la Casa del rider a Napoli, aperta nel 2021 grazie a Inail, NIdiL Cgil e l’Associazione Napoli pedala, per dare ai rider napoletani uno spazio per riposarsi, ricaricare le batterie e manutenere le biciclette.

In questo momento purtroppo è chiusa per lavori pubblici nello spazio che la ospita ma è stato un primo esempio importante, a cui sono seguite altre aperture. A Palermo è stata aperta una Casa dei rider nell’autunno del 2023, dedicata al rider Antonio Prisco, che è anche luogo di ritrovo per riunioni sindacali. A Milano, al centro commerciale Bicocca Village, è attivo un servizio simile chiamato Pit-stop riders, così come a Reggio Emilia è attivo il Rider point dal 2021.

A Genova, invece, è aperta una Casa dei rider nel novembre 2022, a cui è seguita una seconda per ampliare la copertura cittadina di questi servizi e creare una sorta di rete come sarà a Torino: «Tendenzialmente è meglio progetto che prevede una rete – analizza Roberta Turi –. Se parliamo di città abbastanza ampie i rider si muovono sul territorio, sostano vicino ai ristoranti, spesso davanti a varie catene di fast di food. Ovvio che la cosa migliore sia avere una rete di questi luoghi. Con città più piccole invece è più semplice anche avere un unico luogo».

Una casa è aperta, ma poco utilizzata, anche a Carpi, mentre a La Spezia il servizio potrebbe essere compromesso dalla volontà delle aziende di spostare la sede di partenza dei rider, rendendo inutile la casa.

Una situazione simile c’è anche a Livorno, dove è attiva da inizio anno una sperimentazione in un circolo Arci che però potrebbe dover affrontare spostamenti simili dei lavoratori. In alcuni casi l’esperimento è stato invece interrotto. A Modena, dove dopo due inverni di apertura, il progetto non è stato ancora riattivato.

Le prossime tappe

Ci sono infine proposte in fase di realizzazione. A Rimini, l’iter per aprire uno spazio simile è iniziato nel 2022 e, dopo diversi problemi, è ancora in corso. A Messina i lavori sono in corso e anche a Bologna c’è un tavolo aperto dopo che un accordo del 2023 tra Just Eat e Cgil.

Dal nuovo anno, a Roma dovrebbe essere attivato un progetto – per il momento arenato – che coinvolgerebbe cinque biblioteche cittadine. Intanto un altro progetto virtuoso è quello di Firenze dove nel 2025 dovrebbe aprire uno spazio per i rider curato dal sindacato, che sta facendo un crowdfunding per mettere su la casa.

Questo, però, fa sorgere anche un’altra problematica che evidenzia Turi: «Molto spesso i comuni hanno provato a coinvolgere le aziende che si sono dichiarate indisponibili a cofinanziare spazi di questo tipo». Altre volte le Case dei rider non sono state accettate come punto di partenza dalle aziende stesse, che non sembrano dimostrare attenzione verso i rider stessi. Intanto questi servizi possono essere un punto (sicuramente non sufficiente) di partenza.

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