Non se ne andò dopo Palermo, non se ne va dopo Berlino. Sulla carta geografica delle disfatte, Gabriele Gravina ha aggiunto un altro puntino e la sua ostinazione, mai darla vinta a chi gli chiede di dimettersi.

Sedici ore dopo la più sconcertante delle sconfitte recenti della Nazionale, il presidente della federazione si è seduto di fianco al suo cittì Luciano Spalletti per spiegare che tutto va male ma tutto procede, questa è l’ora della «responsabilità e della lucidità», e allora «andarsene sarebbe un danno superiore». Se lo dice lui.

Non è riuscito neppure a nominare la parola, «quegli atti» ha detto, come fossero impuri, così ha definito le dimissioni di Abete e Prandelli dopo l’eliminazione dai Mondiali 2014, quelle di Tavecchio e Ventura per la mancata qualificazione a Russia 2018. Tutto con le bottigliette dell’acqua dello sponsor in primo piano per le tv, perché nel melodramma siamo imbattibili, ma pure col grottesco ce la caviamo.

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1974-2024

Cinquant’anni fa, sempre a giugno e in Germania, la voce affranta di Nando Martellini chiuse la telecronaca della terza partita nel girone ai Mondiali dicendo: «Polonia 2 - Capello 1». Forse era una gaffe, ma era una fotografia. Era l’Italia ridotta a un solo uomo, come oggi accade con Donnarumma, era l’Italia spaccata dagli ego e rinsecchita dall’età, la sconfitta diventò letteratura in un romanzo di Giovanni Arpino che ora Minimum Fax ristampa.

Azzurro Tenebra è diventato un modo di dire, nei titoli ci sta benissimo. Certe volte il Caso si diverte. Le analisi dei quotidiani del 1974 si fermarono a misurare la distanza tra la pochezza di una squadra che aveva faticato a battere Haiti e il nuovo calcio atletico di Olanda e Polonia arrivato sulla scena, l’ascesa di un calcio nel quale era necessario correre, non più solo passeggiare palla al piede.

L’Italia non aveva retto la sfida con la modernità, non aveva saputo leggere un panorama in arrivo, non stava al passo.

Mezzo secolo dopo, sono cambiate le località del ritiro, ci sono 400 km tra Iserlohn 2024 e Ludwigsburg 1974, ma pure questa Italia continua a non capire il cambiamento. Viviamo il primo Europeo allargato a 24 squadre, eppure nessuna ha chiuso a zero punti, una sola partita delle prime 38 è finita con più di tre gol di scarto.

La squadra di Ronaldo ha perso dalla Georgia come ai Mondiali quella di Messi aveva fatto con l’Arabia, gli inglesi non hanno battuto né danesi né sloveni, la Francia non ha ancora segnato su azione, la Germania si sta rialzando dopo un paio d’anni trascorsi a perdere contro Ungheria, Nord Macedonia e Turchia. Significa che tutte hanno un’organizzazione, tutte hanno imparato un metodo. Questo è il calcio contemporaneo, questo è lo sport contemporaneo, un posto dove la circolazione dei saperi figlia della cultura digitale ha impresso una traccia.

Non lo abbiamo capito, e non da sabato sera, non lo abbiamo capito da almeno dieci anni, altrimenti i commenti e le opinioni intorno a questa squadra non sarebbero così indignati perché di là c’era la Svizzera. C’era la Svizzera, e allora? Il nome Italia da solo è un guscio senza polpa. Lo sport premia chi si aggiorna. I declini esistono, altrimenti Ungheria e Cechia giocherebbero ancora le finali ai Mondiali.

Gli Usa di Muhammad Ali non vincono un oro olimpico nella boxe maschile da vent’anni, mentre un kenyano può diventare campione del mondo nel lancio col giavellotto (Julius Yego, 2015) copiando la tecnica degli scandinavi su YouTube, oppure due norvegesi possono vincere le Olimpiadi nel beach volley perché il padre di uno di loro ha costruito un campo di sabbia in giardino.

La lezione dalle altre federazioni

Se pensiamo che perdere contro la Svizzera sia stata un’altra Corea, non abbiamo capito cosa c’è dietro Jacobs e Sinner, oppure autorizziamo gli americani a credere d’aver perso l’oro dei 100 metri e il numero 1 del tennis – pfui – da un italiano. Non è stata una Corea. È la nuova normalità.

Per questo abbiamo una Nazionale d’atletica forte come mai prima, coerente con la società che muta. Per questo abbiamo l’Italia del nuoto migliore di sempre, due Nazionali di pallavolo da oro a Parigi, ragazze d’eccellenza nella boxe: tutte tradizioni che non esistevano, tutte competenze costruite nel tempo.

Si può fare, ma il calcio italiano si sente al di sopra dello studio e dell’analisi. È il regno dei conservatori. Chi si sforza di parlare la lingua dell’innovazione, passa per mezzo matto. A Spalletti basta dire «calcio perimetrale», per esempio.

Invece sopravvive chi si aggiorna. Il calcio italiano ha perso la sua presa sulla società. Otto anni fa una ricerca della De Agostini segnalava che il mestiere del giocatore non era più al primo posto nei sogni dei bambini. Era scivolato al quarto.

Volevano fare gli chef. Più Cannavacciuolo, meno Cannavaro. Ora che quei bimbi sono cresciuti, guardano meno calcio e fanno sport diversi, affollano le audizioni di X Factor, prendono una borsa e partono, vanno a cercarsi uno spazio in Europa.

Noi e l’estero

I nostri calciatori no: questo è un cruccio di Spalletti. Non lo fanno perché c’è un sistema intorno che lo giudica inopportuno, diamine, dove andate, siamo l’Italia. Preferiamo masticare alibi come vecchi chewing gum, li sentiamo pure in queste ore. Troppi stranieri, pochi giovani, questa roba qua. Gravina parla di soli 100 selezionabili dal campionato. Non è vero.

Gli italiani nell’ultima serie A sono stati 218. Solo il 35 per cento sul totale, d’accordo. Ma gli inglesi in Inghilterra sono il 32 per cento. Per non dire che fra 218 una quindicina di buoni c’è il dovere di trovarli.

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I giovani

È questo il mondo che abitiamo, sopravvive chi lo interpreta meglio. Gravina rivendica i successi europei delle Under-17 e delle Under-19, fa bene, ma Portogallo e Spagna i suoi adolescenti più forti non li manda ai tornei per ragazzini. Anche gli spazi sparuti in serie A sono ormai un argomento logoro.

Se i diciannovenni non giocano è perché non sono pronti. Questo è il lavoro da fare. Prepararli. Solo che nei settori di base molti sono istruttori per diletto, fanno un altro mestiere. La federcalcio non ha un centro né soprattutto un metodo come quelli della Francia a Clairefontaine.

Per ripartire dopo i loro fallimenti, i tedeschi ebbero l’umiltà di copiare i belgi. Nacquero 366 Stützpunkte, punti regionali di raccolta per bambini dai 10 anni in su. I vivai si riempirono di Footbonaut, una macchina che spara palloni dagli angoli. Bisogna stopparli e mandarli nel quadrante su 64 che si illumina. Così vengono fuori i Kroos. Si toccano più palloni con il Footbonaut in 10 minuti che in una settimana nei vivai italiani.

Il coordinatore Jörg Daniel disse: «Se qualche ragazzo di talento dovesse nascere in un villaggio sperduto fra le montagne, noi lo troveremo». Costo: 10 milioni di euro all’anno. Ci sarà qualche soldino in federazione per farlo, se no l'acqua minerale in primo piano cosa la mettiamo a fare. Quando gli inglesi si accorsero che non nascevano più fantasisti, si misero a produrli con progetti mirati, in sinergia con i club: Foden, Grealish, Bellingham non sono stati un bacio del cielo.

Le prospettive

Gravina ha ragione quando dice che spira un vento mondiale per ridurre lo spazio delle Nazionali, ma l’Italia si sta riducendo da sola anche uno spazio sentimentale. In ogni stadio tedesco è stato prevalente il tifo altrui, eppure la Germania è terra di emigranti, che mistero. Italia-Svizzera sabato pomeriggio ha fatto 12 milioni di spettatori, tre in meno di Italia-Croazia, tre milioni in fuga, avevano capito tutto.

Spalletti promette di ringiovanire l’Italia. Fa bene, deve passare la bufera e questo oggi vogliamo sentirci dire. Ma servirà darsi un punto di equilibrio, trovarne uno, perché la qualificazione ai Mondiali 2026 non è un dettaglio trascurabile. Nessuno può davvero immaginare che ci andremo con Pafundi trequartista e Camarda centravanti. Possiamo usare la prossima Nations League per sperimentare, ma non serve troppa fantasia per immaginare cosa accadrebbe il 6 settembre se un’Italia di stagisti dovesse prenderne quattro in casa della Francia.

Servirebbe un accordo fra gentiluomini con i club, chissà se ne sono rimasti. Servirebbe un’attenzione dei media di settore, ma in prima pagina ci va il calciomercato. Ognuno ha un interesse superiore, della Nazionale ci ricordiamo ogni due anni. Quando perde. Gravina allarga le braccia. Dice: cosa ci posso fare. Ma se non può farci nulla, proviamo con un altro.

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