La democrazia dello sport italiano ha la febbre. E non è solo fisiologica agitazione elettorale. D’altronde questo è un posto, lo sport, non solo in Italia, dove da sempre regna un istinto “unanimista”, l’idea che una candidatura alternativa debba essere subito smontata sull’altare del “non è esperto, farebbe danni” o nel caso delle donne, “sono loro che non hanno voglia”.

Peraltro dello scenario politico-sportivo-elettorale importa a pochi intimi. Su nuovi e vecchi media è una materia che non tira. Con qualche eccezione in cui la narrazione risulta almeno apparentemente più facile.

Ne abbiamo contate tre in questi mesi. La prima: la battaglia (vinta) dei presidenti federali che ha fatto saltare il tetto dei tre quadrienni sdoganando la possibilità di ricandidarsi anche dopo, seppure con una maggioranza qualificata (due terzi dei voti espressi) per essere eletti. La seconda: l’intervento legislativo che ha fatto sponda ai presidenti di serie A per un loro peso elettorale maggiore nella Federcalcio. Anche qui, via libera, ma con il punto interrogativo: la Serie A passerà dal 12 all’x per cento, ma della x (15? 20?) ancora non si sa niente.

La terza è ancora in ballo: il futuro di Giovanni Malagò, che dovrebbe andar via in primavera visto che la “libertà dei mandati” dei presidenti vale per le federazioni ma non per il Coni.

Autonomia autoreferenziale

Ora, con tutto il rispetto, la democrazia sportiva può dipendere dal destino di poche decine di persone? I casi dell’ultimo fine settimana provocano un altro tipo di riflessioni: nei due sport olimpici per eccellenza, nuoto e atletica, il candidato era unico (sabato a Roma ha vinto le elezioni Fin l’uscente Paolo Barelli con il 77,7 per cento delle preferenze, domenica a Fiuggi è toccato per la Fidal a Stefano Mei, con il 72,47), mentre i due sfidanti (Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia, che avrebbe dato vita a un derby della maggioranza con l’“azzurro” Barelli, e Giacomo Leone, vincitore della maratona di New York del 1996) sono finiti in fuori gioco: il primo ha sbagliato il modulo candidandosi come presidente del collegio dei revisori dei conti e non come numero 1 federale; il secondo non aveva completato la documentazione (mancavano due o quattro firme, le versioni sono diverse, su 285). 

Il Collegio di Garanzia presso il Coni ha detto no al ricorso di Rampelli, il Tar del Lazio ha fatto la stessa cosa con gli oppositori di Mei che avevano contestato le modifiche statutarie (intanto anche Corrado Barazzutti ha inviato il ricorso al Collegio di Garanzia contro la sua esclusione dalla candidatura Federtennis e Padel dove nelle elezioni ha vinto il riconfermatissimo Angelo Binaghi). 

Tanto per aggiungere un dettaglio non proprio trascurabile: sapete chi ha validato le candidature, dicendo quello sì quello no? Il segretario federale. E sapete chi lo nomina il segretario federale, seppure «previa consultazione con il Coni e sentito il consiglio»? Lo stesso presidente federale. Un concetto di autonomia un po’ troppo autoreferenziale…

Solo la vittoria

Il ministro dello Sport Andrea Abodi ha provato (timidamente) a intervenire sul cuore di queste varie anomalie. Il patto politico con le federazioni quale era? Ti tolgo il tetto dei mandati, ma tu semplifica, liberalizza, abbassa l’asticella dei requisiti per correre per le diverse cariche. Cioè, crea le condizioni per più candidature.

È successo? Nel nuoto non c’era nessun vincolo. Nell’atletica, invece, le cose sono diventate molto più complicate, passando dalla possibilità di candidarsi con 20-30 società (quelle che hanno più voti e che rappresentano almeno il 10 per cento del corpo elettorale) al limite delle 199 (più gli atleti e i tecnici) per un complesso di 285 firme rispetto alle 20-30 dell’èra precedente.

Ma nei Principi Informatori del Coni che ispirano le regole federali c’è qualcos’altro che ci colpisce. Leggiamo: «Sono esclusi voti plurimi legati al numero dei tesserati». Quindi, se hai duemila tesserati o se ne hai 50 fa lo stesso. A spostare il peso elettorale di una singola società sono invece generalmente i risultati. Succede così (ora un po’ meno, c’è stata una leggera crescita del criterio “sociale”) anche per i contributi dello stato.

Il sistema italiano, dunque, nonostante tutte le belle parole sulla “promozione”, resta alimentato da una filosofia: pensa solo a vincere. Se lo fai hai più soldi (le federazioni) e più voti (le società). Scusate, ma siete sicuri che pure questo andazzo non contribuisca a generare in qualche caso genitori ultras sugli spalti e ossessione del risultato contro cui abbiamo tutti (non proprio tutti) elogiato le parole liberatorie di Benedetta Pilato dopo il suo quarto posto di Parigi?

Anche nelle federazioni più piccole, quelle in cui un club vale un voto e basta, la variabile quantitativa non esiste al di là di una soglia minima di tesserati che certificano almeno l’esistenza del club. Qual è il problema? Il rischio di un tesseramento artificioso a fini solo elettorali? Questo discorso somiglia curiosamente proprio a quello che si faceva per dire no alla candidatura di Roma 2024: meglio non correre perché c’è il fantasma della corruzione. E contro cui lo sport si ribellò senza fortuna.

Cosa succede all’estero

All’estero qualcuno fa come noi, altri scelgono una strada diversa. La federazione francese di judo è un’organizzazione da 500mila tesserati. Lo statuto dice che «ciascuno detiene un numero di voti in ragione del numero degli iscritti». E i comitati olimpici? In Italia, un atleta di una federazione più piccola vale nell’economia elettorale quasi 500 volte di più di un calciatore iscritto alla Figc. In Francia, se hai fra i 3000 e i 10000 iscritti hai un voto in più, fino a 50000 due, fino ai sei voti se superi quota 400000. L’unica condizione è quella posta del Cio: le federazioni olimpiche devono essere in maggioranza nel corpo elettorale. Anche in Germania i voti variano a seconda del numero degli affiliati. In Italia, invece, il nostro “parlamento” (il consiglio nazionale del Coni) per eleggere presidente e giunta è ridottissimo, più o meno un’ottantina di persone.

L’intervento firmato Giorgetti-Valente (2018-2019) con la nascita di Sport e Salute partiva dal presupposto che il presidente del Coni non potesse tenere la cassa dei contributi alle federazioni che avrebbero dovuto votarlo. Ma il Coni mantiene un potere di vigilanza (pensiamo all’approvazione degli statuti o ai poteri di commissariamento, etc) che comunque rappresenta un potenziale conflitto di interesse. Con una base elettorale più larga questo finirebbe annacquato o addirittura cancellato.

Contare di più 

La vicenda di Giovanni Malagò rappresenta in questo caso un paradosso. Perché chiunque giri sul territorio sa che il suo ascendente crescerebbe nel caso di una platea più ampia. È stato proprio lui però a mostrarsi sempre piuttosto freddo sulla possibilità di un allargamento della base elettorale.

Lo sport è dunque qualcosa di molto più grande di un piccolo gruppo di persone, presidenti e dirigenti spesso anche di qualità. Forse c’è bisogno di meno commissari ad acta e di più democrazia. Insomma, non c’è un modo perché quei tanto sbandierati quasi 15 milioni di tesserati – fra federazioni, discipline associate ed enti di promozione – possano contare di più?

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