- In arrivo a Tokyo Meo Sacchetti, ex bandiera di Torino e Varese e coach della nazionale di basket italiana, ha fatto sapere la sua sul peso dei Giochi.
- Eppure il dibattito resiste e, se si vuole provare a inquadrarlo, è utile accantonare la retorica d’accatto che racconta di un mondo diviso da un guado di moralità: di qua i buoni, i cresciuti nei valori sani, quelli che sentono la chiamata della patria come irrinunciabile servizio in nome di un bene superiore e accantonano orgogliosamente ogni altra priorità.
- Sull’altra sponda, i cattivi. Come il tennista Jannik Sinner, che per ragioni tecniche ha deciso di starsene a casa.
Era solo questione di quando e di chi. In arrivo a Tokyo Meo Sacchetti, ex bandiera di Torino e Varese e coach della nazionale di basket italiana, ha fatto sapere la sua sul peso dei Giochi: «L’Italia di calcio ha vinto l’Europeo e siamo tutti contenti. Io, da giocatore, avevo vinto medaglie agli Europei ma, quando ho giocato l’Olimpiade di Mosca, per me è valso molto di più». La cantilena trita sul posto giusto da dare alle Olimpiadi nell’album di famiglia è l’appuntamento fisso di ciascun quadriennio (più un anno, grazie al Covid) e somiglia a quei dibattiti su maggioritario e proporzionale in cui ciascuno, ascoltato senza contraddittorio, sembra avere in pugno la ragione.
Sacchetti, per esempio, rappresenta – da ex atleta di una disciplina popolare – un sentimento genuino e largamente condiviso: la partecipazione ai Giochi è un approdo cui riesce ostico raffrontare esperienze agonistiche con tradizione, fascino e conoscibilità anche soltanto similari. Come negarlo.
Eppure il dibattito resiste e, se si vuole provare a inquadrarlo, è utile accantonare la retorica d’accatto che racconta di un mondo diviso da un guado di moralità: di qua i buoni, i cresciuti nei valori sani, quelli che sentono la chiamata della patria come irrinunciabile servizio in nome di un bene superiore e accantonano orgogliosamente ogni altra priorità. Sull’altra sponda, i cattivi. Come il tennista Jannik Sinner, che per ragioni tecniche (non per un guaio muscolare, come accaduto per il forfait in extremis di Matteo Berrettini, semplicemente ultimamente è un po’ confuso e la bolla di Tokyo non la trovava strategica per i mesi di attività a venire) ha deciso di starsene a casa. E per questa ragione si è preso pressappoco del renitente alla leva dall’ex capitano di Coppa Davis Corrado Barazzutti: «Dispiace vederlo mortificare la più alta competizione mondiale come valori (sic). Alla quale nessun atleta senza problemi fisici rinuncerebbe per niente al mondo». Eppure, il tennis è proprio una delle discipline di pratica globale il cui innesto nel programma dei Giochi ha mostrato le difficoltà più evidenti.
Tennis
Stranamente incluso nelle discipline pionieristiche dell’evento, nel 1896, dal 1928 in poi il tennis è stato uno degli sport spariti da quelli ammessi alle Olimpiadi (salvo per due fugaci comparsate come evento dimostrativo, a Città del Messico 1968 e Los Angeles 1984, dove peraltro Paolo Canè si è aggiudicato la medaglia di bronzo). Il principale impedimento era rappresentato dalla sua natura professionistica, divenuta ufficiale dal 1968 in poi, e poi da quell’innato approccio centrato sull’individuo (solo in campo, senza allenatore a lato) in cui già si è faticato ad affermare un evento di squadra come la Coppa Davis, classico odi et amo per i campioni di tutte le epoche. Da Seul ’88, il tennis è tornato a far pace con i Giochi ma non troppo con i tennisti: per incentivare la partecipazione – il che la dice lunga sulla sacralità di valori indefettibili – l’associazione sindacale e il Cio si erano accordati per riconoscere al torneo punti validi per la classifica mondiale. Suscitando però le ire di chi, avendo la sfortuna di essere nato in un paese di stelle del tennis, non avrebbe mai avuto la possibilità di essere convocato, nonostante uno status di campione. Anche quell’esperimento di ibridazione, per il vero di scarso successo, è stato interrotto a partire dal 2016.
Basket
Il basket di Sacchetti, per conto suo, ha vissuto passaggi piuttosto complessi. Sempre per tutela del dilettantismo, le stelle Nba non potevano partecipare al torneo olimpico. Che significava levare primo, secondo, dessert e vini dal menu, lasciando al più qualche antipasto di tennis dei college, benché l’ambizione degli Stati Uniti per la medaglia fosse tangibile. Ci volle una sconfitta storica a Seul 1988 contro l’Urss perché si arrivasse alla modifica regolamentare del 1989, che ha permesso agli Stati Uniti di caricare il Dream Team e portarlo a Barcellona 1992, nel cui torneo ha travolto tutti gli avversari chiudendo ogni incontro con più di 30 punti di vantaggio. Fino ad allora né Larry Bird né Michael Jordan, né Magic Johnson né Charles Barkley si ponevano il problema dei valori olimpici. Né alcun universitario americano avrebbe rinunciato ai contratti “pro” per garantirsi una convocazione. Peraltro giova ricordare che l’Italia del basket ha vissuto forfait eccellenti da parte di alcuni tra i cestisti italiani già prescelti negli ultimi anni dagli Stati Uniti per le loro franchigie, segnatamente gli ex Nba Luigi Datome e Marco Belinelli per questa edizione.
Certo, dove non c’è da scegliere è più facile. Parlare di Giochi decontestualizzando le circostanze, omettendo l’esistenza di discipline in cui l’oro è la mèta e altre in cui l’evento olimpico non ha mai (o quasi mai) segnato il punto più alto della loro manifestazione agonistica, significa mettere sullo stesso piano LeBron James e un degnissimo campione di pistola – ah, l’Italia, a Rio 2016, ha vinto otto medaglie d’oro, metà delle quali nel tiro a segno e a volo, realtà dalla pratica di nicchia, di cui la massa critica viene a conoscenza esclusivamente in tali occasioni, e poi si dimentica fino all’edizione seguente.
Calcio
Il calcio evocato da Sacchetti, seppur disciplina storica e in cui l’Italia trionfò nel ’36 a Berlino, è un altro esempio di innesto, ancorché più riuscito di altri anche perché sport di squadra. Si provi a chiedere a un campione rappresentativo di professionisti del pallone se, dovendo incasellare uno scudetto, una Champions League, un Europeo, un Mondiale e un oro olimpico qualcuno, oggi, oserebbe piazzare quest’ultimo in uno dei primi posti. O a Roberto Mancini, se scambierebbe il campionato appena vinto da allenatore con una partecipazione ai Giochi giapponesi – che non ci sarà, perché l’Italia Under 21 ha fallito la qualificazione. Al fine di mediare tra la realtà e i sacri princìpi olimpici, il torneo di pallone prevede una selezione di giocatori sotto i 23 anni con la licenza di imbarcare tre calciatori fuori quota.
È un compromesso, uno dei tanti. Ci sono sport di tale sovrabbondanza e specializzazione che si può sminuzzare e contingentare l’accesso in ossequio ai valori del Cio, semmai col rischio (che è più di un rischio) di rendere la loro espressione olimpica non competitiva con altri eventi. Ma i Giochi sono quell’arca di Noè in cui, da Parigi 2024, entrerà la breakdance, il ballo di strada del Bronx. E in cui chiedono cittadinanza pure gli e-gamer, i nerd che si consumano diottrie coi giochini elettronici.
Il Cio si è prodigato costantemente nel tentare di mantenere la barra a dritta, limitando il numero degli sport (molti dei quali con le sue sottodiscipline) in 28, rendendo più morbidi i divieti di accesso a chi fa sport per lavoro, anche perché ormai tutti gli sportivi di alto livello o sono professionisti conclamati, o lo sono di fatto, con utilizzo di vari escamotage. Ma tentare di arginare la deriva dello sport-business non si può. Le discipline più amate saranno sempre più retribuite e prive di bandiere o confini nazionali, con un’agenda di impegni largamente incompatibile con quella delle Olimpiadi e un destino di convivenza prevedibilmente accidentato.
Le popstar dello sport hanno abbattuto ogni barriera e hanno un popolo di sostenitori che prescinde da squadra di appartenenza e nazionalità degli avversari, che si parli di Lionel Messi o di Roger Federer. Non c’è alcuna necessità di spiegare a un centometrista che l’oro olimpico dovrebbe essere la sua massima aspirazione. Dove, invece, qualcuno richiama alla bandiera tradita e agli obblighi etici calpestati, si dovrebbe scorgere non tanto una mancanza di educazione quanto uno stato di fatto. La Coppa del mondo di calcio è lassù, per tutti, e lassù rimane. Nello stesso posto in cui hanno casa Wimbledon, uno Slam nel golf – altro sport “pro” sparito per quasi un secolo e riesumato dal 2016. O il Sei Nazioni nel rugby, sport che ha trovato ai Giochi una dimensione parallela: a Tokyo si gioca a sette, con un circuito di preparazione ormai autonomo e che offre la possibilità di mostrarsi a tutto il mondo, nella speranza di allargare la base di praticanti. Esigenza di promozione che alcuni sport hanno, altri meno, e che fa parte delle finalità dei Giochi.
Altro – ed è un aspetto che non andrebbe confuso col resto – è chiedere a un membro di una spedizione olimpica cosa significhi esserci. E ciò vale sia per chi pratica skateboard e arrampicata e tocca il cielo con un dito se è il prescelto per Tokyo, sia chi è stretto tra esigenze di club, tornei multimilionari obbligatori e scadenze agonistiche pressanti.
Il numero uno del mondo del tennis, Novak Djokovic, ha le sue motivazioni ideali (è un fervente patriota serbo) e personali (insegue il Golden Slam, vincere i quattro grandi tornei e i Giochi nello stesso anno, come ha fatto la sola Steffi Graf nel 1988). A Tokyo ci sarà, nonostante le restrizioni e il calendario fittissimo di impegni di qui agli Us Open. Ma se non è proprio una faccenda privata, la sua, ci si va abbastanza vicini.
© Riproduzione riservata