- Una volta il polso destro, tre volte il polso sinistro. Quattro volte il ginocchio destro. In dieci anni, il tennista argentino Juan Martin del Potro, ex campione agli US Open e tra gli atleti sudamericani più celebri di sempre, ha collezionato più risonanze, ecografie e soste dal chirurgo che un ottuagenario lungodegente.
- Esasperare la fatica e lo stress anatomico, titillare le frontiere di resistenza muscolare, continuare a spremere prestazioni sempre più spinte verso l’eccellenza ha un costo.
- A 33 anni Del Potro si accontenterebbe di «vivere una vita normale» che, detto da un giovane uomo che ha cavalcato l’eccellenza dello sport, fa sorgere più di un quesito. E non è un caso isolato.
Una volta il polso destro, tre volte il polso sinistro. Quattro volte il ginocchio destro. In dieci anni, il tennista argentino Juan Martin del Potro, ex campione agli US Open e tra gli atleti sudamericani più celebri di sempre, ha collezionato più risonanze, ecografie e soste dal chirurgo che un ottuagenario lungodegente.
Ha appena giocato la sua ultima partita a Buenos Aires quasi senza riuscire a correre e, tra una parola e una lacrima, ha spiegato ai suoi aficionados affranti che, da oggi in poi, la sua giornata media non sarà più dedicata a preparare il torneo successivo o a colpire uno dei suoi dritti che facevano schioccare la palla ma «a sperare di passare una notte di riposo senza svegliarmi per il male, e poi a fare tutto quello che serve per poter camminare senza dolore».
Del Potro ha trentatré anni, un corpo che ne denuncia almeno il doppio e, dopo gli Slam e le medaglie olimpiche, ha riprogrammato il senso di coltivare propositi ambiziosi: ora si accontenterebbe di «vivere una vita normale» che, detto da un giovane uomo che ha cavalcato l’eccellenza dello sport, fa sorgere più di un quesito. E non è un caso isolato.
Per tenere il passo della triade Djokovic-Nadal-Federer, un altro fuoriclasse come Andy Murray si è sottoposto, dopo aver già frequentato il chirurgo per la schiena, a un intervento tipico della consunzione senile: la protesi all’anca, a causa di una grave forma di artrosi.
A forza di scatti e rincorse, il suo femore si era consumato. E se pure il recente campione degli Open d’Australia, Rafa Nadal, si è presentato in campo fresco di bisturi per sistemare un piede e Roger Federer, dopo una carriera tutto sommato sana, sta pagando in ritardo la tassa sulla salute con tre interventi al ginocchio destro negli ultimi due anni, la rassegna degli sportivi in bende e grucce ripropone una domanda che non tramonta mai: ma lo sport fa bene?
La macchina umana
Prima di attirarsi le giuste ire di chi considera patrimonio comune la consapevolezza di quanto l’attività fisica sia utile a un’infinità di cose che spaziano dall’organico allo spirituale, vale la pena circoscrivere il ragionamento a una branca specifica della pratica sportiva, cioè la sua espressione professionistica. Della quale il pubblico conosce perlopiù il risultato, estetico e di prestazione: gli atleti di mestiere sono, in gran parte, fenomeni dalle capacità inimmaginabili, che hanno trasposto l’altius citius fortius a quote non frequentabili dagli altri esseri umani.
Di più: il corpo di un LeBron James – che spende più di un milione di dollari l’anno per la cura di sé, dalla nutrizione agli allenamenti – non è solo capace di esprimere valori di forza ed elasticità sbalorditivi, ma pare la rappresentazione in carne di un David. Masse muscolari ipertrofiche con percentuali di massa grassa minime, bicipiti e deltoidi scolpiti sotto la pelle, insomma, una testimonianza in vita della salute e dell’efficienza della macchina umana.
La stella dell’Nba potrebbe, peraltro, somigliare a una smentita di quanto si va dicendo: trentasette anni eppure in piena forma, titolare inamovibile nei Los Angeles Lakers, fresco di record sottratto al povero Kobe Bryant – la cosiddetta “tripla doppia”: più di dieci canestri (nel caso di specie, trenta), almeno dieci rimbalzi e assist realizzata a un’età decisamente avanzata.
Effettivamente c’è chi può contare su genetica, cura maniacale del proprio strumento di lavoro e, perché no, buona sorte nel completare carriere-maratona senza infortuni clamorosi: come Gigi Buffon, o Cristiano Ronaldo. E lo stesso Zlatan Ibrahimovic che, tra un acciacco e l’altro, una frenata e una ripartenza, ogni tanto è costretto a una sosta dal meccanico ma ha sfondato il muro dei quarant’anni e ancora compete in serie A, in una disciplina di contatto fisico che, per ciò solo, moltiplica le opportunità di farsi del male.
Ad altri campioni, invece, non è andata altrettanto bene. Il bomber argentino Gabriel Omar Batistuta, amato in nove stagioni di gol Firenze e tre a Roma, scudetto compreso, ha passato gli ultimi quindici anni della sua vita a cercare di rimettersi in piedi: le caviglie, mitragliate di infiltrazioni, erano così malconce che il suo chirurgo le scambiò «per quelle di un mio paziente di ottant’anni».
Nel docufilm che racconta la sua storia, El numero nueve, Batistuta confessa di aver chiesto a uno dei tanti medici cui si era rivolto «di amputarmi entrambe le gambe, perché non ne potevo più di sentire male ventiquattr’ore al giorno». E sembra di risentire le parole di Boris Becker, il campione ragazzino che andò a segno a Wimbledon da minorenne: Bum Bum, lo chiamavano i tedeschi, tanto era grosso e possente. Un panzer.
Si tuffava sull’erba, sulla terra e sul cemento, sparava servizi a più di duecento chilometri orari, sembrava indistruttibile. Sembrava. A neanche cinquant’anni, guardando le radiografie dei suoi talloni, uno specialista gli disse: «Sono così consumati che non riesco a spiegarmi come lei, in questo momento, riesca a stare in piedi davanti a me». Oggi, altro che tennis: Becker non riesce a piegarsi a raccogliere una pallina da terra.
E ci sono anche casi di ragazzi – perché di ragazzi si tratta – costretti a scegliere oggi per il futuro, con opzioni definitive: all’ex numero uno del mondo del tennis Lleyton Hewitt, un corridore che macinava chilometri all’impazzata pur di non perdere un punto, fu presentato un testa o croce: smettere di giocare intorno ai trent’anni, oppure installare una placca di metallo per bloccare (per sempre) l’alluce del piede sinistro. Hewitt scelse la seconda. A un altro Ronaldo del calcio, il Fenomeno che fece stropicciare gli occhi a tutti gli appassionati italiani a prescindere dalla fede, sono state riservate carte meno fortunate nel mazzo.
Certamente meno attento del suo omonimo al proprio corpo, fu però vittima incolpevole di una serie di circostanze: nel pieno di una carriera travolgente, si lesionò un tendine rotuleo. Dopo qualche mese, forse rimesso in campo prima del dovuto, il tessuto si lacerò completamente e Ronaldo passò un altro anno e mezzo lontano dal campo.
Quando si ritirò, con più cicatrici che trofei, in molti ebbero l’impressione di aver assistito alla parabola plurinterrotta di un fuoriclasse tra i più forti di tutti i tempi, ma anche tanto fragile da non riuscire a sostenere i ritmi serrati imposti ai professionisti tra campionati, coppe, competizioni continentali e impegni con la nazionale.
Sempre in Italia, c’è chi ancora si commuove ripensando alle gesta di Marco Van Basten, che adesso non può più toccare un pallone coi piedi senza vedere le stelle e, nella sua autobiografia Fragile, racconta di quando doveva strisciare dal letto al bagno per fare pipì: «I contorni delle porte erano la parte più impegnativa, perché la mia caviglia doveva superarli senza toccarli. Anche il minimo tocco mi faceva mordere il labbro per non urlare».
L’esistenza post sportiva
La prerogativa dello sport che si è fatto mestiere e business è la pretesa di spingere al limite (oppure oltre?) le prestazioni offerte dal corpo umano, costi quel che costi. E volendo tralasciare i risvolti psicologici nefasti, a breve e lungo termine, che tale percorso comporta sulla mente e l’esistenza post sportiva degli atleti, è indubbio che l’attività dei professionisti non abbia molto a che vedere con il mens sana in corpore sano.
Esasperare la fatica e lo stress anatomico, titillare le frontiere di resistenza muscolare, continuare a spremere prestazioni sempre più spinte verso l’eccellenza ha un costo. E questo prezzo si presenta spesso sotto forma di malanni che, a differenza delle carriere, non hanno data di scadenza. Una tassa che alcuni iniziano a pagare già da ragazzi, altri si ritrovano nella buca delle lettere a fine percorso, spesso con la medesima intestazione: danni da eccesso di agonismo.
Ma se una finale persa si può giocare l’anno successivo, la salute persa non si ritrova: lo stato di salute portato all’estremo è pericoloso «perché esso non può rimanere così, né restare a lungo stazionario e, poiché non può rimanere stazionario né migliorare, non resta che un cambiamento in peggio». Parola di Ippocrate.
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