Come o più dei cavalli, i maiali furono tra i protagonisti della conquista delle Americhe. Sbarcati per la prima volta in Florida nel 1539, i suini si adattarono presto al Nuovo Mondo. E lo fecero comportandosi come da loro copione: mangiando e facendosi mangiare
Chi abbia una certa familiarità con la storia delle Americhe sa bene quanto il cavallo sia stato importante nelle vicende della conquista: i cronisti dei primi grandi scontri tra spagnoli e aztechi ci raccontano di come i nativi americani pensassero che l’uomo a cavallo fosse un grande mostro capace di divorare il nemico. Sono notizie realistiche, non invenzioni letterarie o leggendarie.
Sarebbe troppo semplicistico giudicare tali paure come frutto della superstizione o di una proverbiale ingenuità. Cosa diremmo noi, donne e uomini degli anni Duemila, se incontrassimo in carne e ossa un grosso animale immaginario o persino mai immaginato che ci viene incontro sbavando? Come reagiremmo?
Allo stato brado
Questo non significa però che sia stato il cavallo l’unico protagonista dei successi ottenuti dai colonizzatori nel sottomettere buona parte di quello che chiamarono Nuovo Mondo. L’attenzione alla complessità delle cose indispensabile alla buona ricerca storica, rivela che il maiale fu probabilmente ancora più significativo del cavallo per il divenire della storia delle Americhe. Quale porcello approdò per la prima volta sulle sponde della Florida nel 1539?
Non quello lento e sovrappeso che vediamo negli allevamenti del XXI secolo, ma una bestia che sbarcata sulle coste faceva in fretta a diventare veloce, resistente, agile e, soprattutto, autosufficiente. Le difficoltà di trasporto suino durante la traversata atlantica erano innegabili: occupazione degli spazi nelle stive, richiesta di cura e di abbondante cibo (in fondo, mangiano come porci!), cattivi odori e potenziale veicolazione di malattie. Indiscutibili, però, erano pure i vantaggi: finita la navigazione, i porcelli garantivano cibo abbondante e persino buono.
Viaggiatori europei capaci di altruismo e di pensiero in prospettiva inaugurarono pure l’usanza di lasciare coppie di maiali in sperdute isole perché si moltiplicassero e fornissero di che nutrirsi ai futuri visitatori. Le coppie si moltiplicarono, adattandosi all’ambiente meglio degli uomini, anche perché impararono molto prima di loro ad apprezzare il mais. Chi tra avventurieri e navigatori sceglieva di stabilirsi da qualche parte nelle Americhe, una volta esaurite con fatica le tribolazioni della traversata transoceanica, si dava all’esplorazione, alla razzia, alla guerra. Ci si muoveva di norma in gruppo, fiancheggiati, non solo da cavalli ma anche da mandrie di porci. Ci si poteva permettere il lusso di lasciare smarrire i suini che si staccavano dal gruppo per avventurarsi in una nuova vita allo stato brado.
Le scorte di carne ambulante erano sovente così ricche da sembrare inesauribili. Cosa che non erano le risorse alimentari degli indigeni, che prima di imparare a convivere con il fino ad allora sconosciuto maiale d’oltremare dovettero, talvolta impotenti, guardarlo saccheggiare campi e pascoli, rubare il loro cibo senza saziarsene mai. Il maiale causò carestie e si fece pure portatore malsano di microbi e batteri. Come l’uomo, del resto.
Nei libri
Se si amano i romanzi d’avventura, potrebbe risultare gustoso il racconto dei viaggi del mercante fiorentino Francesco Carletti (1573 o 1574-1636). Partito con il padre l’8 gennaio 1594 alla volta di Capo Verde, Carletti rientrò a Firenze appena nel 1606, dopo aver toccato, oltre alla destinazione iniziale, le Indie Occidentali (Messico, Perù), quelle Orientali (Cina, Goa), il Giappone, l’Olanda e la Francia. Di queste navigazioni e di questi soggiorni, Carletti lasciò memoria nei suoi Ragionamenti di F.C. fiorentino sopra le cose da lui vedute ne’ suoi viaggi, sì dell’Indie Occidentali, e Orientali come d’altri Paesi, pubblicati postumi nel 1701 ma già ben conosciuti precedentemente grazie a una notevole circolazione manoscritta. Qual è la relazione tra questo best-seller d’altri tempi e il maiale dell’altro mondo?
Come ogni viaggiatore che si rispetti, Carletti annotò nel proprio diario una marea di informazioni relative al cibo, in particolare a quello buono da commerciare. Era del resto un mercante, e pure piuttosto abile, anche se le ricchezze accumulate con tante fatiche finirono confiscate dai corsari.
Nell’accurato indice dei Ragionamenti sono più di centocinquanta le voci legate, in qualche modo, a cose commestibili, più o meno apprezzate.
Di certo gradite al palato furono le ricette dei medici di Cartagena das Indias (oggi Colombia) dove i due Carletti soffrirono di febbri maligne. «La maniera del medicare in questi paesi è tanto stravagante, che forse per la sua differenza da quello che s’usa in Europa, non sarà creduta da’ nostri medici», comincia col scrivere Francesco, aggiungendo però che «questi miei ragionamenti non hanno da trattare d’altro se non di quelle cose, ch’io medesimo ho fatto, e veduto». Invece di polli, il medico ordinava agli ammalati di mangiare «carne di porco fresca, la quale in questa terra, siccome è ottima al gusto, così vogliono, che sia eccellentissima per la sanità».
Accanto al porco, del buon pesce di mare facile da pescare anche senza dover prendere il largo. A fianco però di rimedi buoni per il gusto, vi erano cure temibili: «Nel resto i rimedi per quelle febbri sono cavare di molto sangue, evacuare colle loro medicine, e provocare il vomito, il che fanno colla semplice acqua fresca, dandone a bere all’ammalato sulla declinazione della febbre quanta ne vuole». Carletti era ben consapevole che si trattava di medicamenti grossolani, tanto da sottolineare come a quei dottori succedesse sia di ammazzare, sia di guarire i propri ammalati, in una percentuale opposta a quella che «si vede accadere tra noi».
I consigli dei medici
Carletti comunicava nei suoi scritti un vero e proprio ribaltamento culturale: la medicina europea della sua epoca, infatti, guardava con sospetto alla carne suina. A un uomo dallo stomaco debole come Ignazio di Loyola (padre dell’ordine dei gesuiti, vissuto tra 1491 e 1556), il medico consigliava di evitare una lunga serie di alimenti: no alle cose salate, aspre, acetose, stitiche, acute (così erano definiti aglio e cipolla, per fare un esempio), vaporose (noci, nocciole), formaggio, latte, senape, porro, cipolla, vino novello, torbido o forte. Da tralasciare poi erano i cibi cosiddetti umidi, quali, appunto, la carne di maiale e i pesci di palude (tinche), senza squame (anguille) e grassi (tonni). Si potevano invece consumare alimenti magri: pollo, pollastra, gallina, pernice, tortora, colomba, vitella in estate, castrato in inverno, capretto arrosto.
Sia Carletti, sia Ignazio ebbero una vita piuttosto lunga, viste le medie del loro tempo. Evidentemente, il consiglio di mangiare e quello di evitare il maiale ebbero entrambi buon esito, o più probabilmente non incisero affatto sulla biografia sanitaria dei due. Possiamo ricavare una morale da questi due esempi? Forse: se eticamente la cosa non ci pone grossi problemi, lasciamo pure il maiale nel piatto, anche quando siamo ammalati, ma rendiamoci conto del rischio.
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