Il decreto del governo si propone come un provvedimento asciutto nella formulazione quanto minimalista nei suoi contenuti
Superato lo scoglio delle elezioni europee e l’inevitabile polemica pre elettorale sui meriti e i demeriti del governo in ambito di salute e sanità, possiamo tornare, più pacatamente, sui contenuti del decreto sulle lista d’attesa recentemente emanato dal Consiglio dei ministri.
Vale la pena notare che, nella sua forma definitiva, il decreto risulta molto più sintetico rispetto a una bozza che era circolata solo pochi giorni prima e si propone come un provvedimento asciutto nella sua formulazione quanto, per molti versi, minimalista nei suoi contenuti.
Una carrellata articolo per articolo (sfoltita dalle lungaggini burocratiche e dai continui rimandi a precedenti provvedimenti) può aiutare a capire non solo quanto ci si propone di fare, ma anche quanto poco sia stato fatto fino a oggi sul problema delle liste d’attesa da questo e dai precedenti governi.
Controllare, ma poi?
L’articolo 1 istituisce presso l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) la Piattaforma nazionale delle liste di attesa, di cui si avvarrà il ministero della Salute per realizzare l’interoperabilità con le piattaforme per le liste d’attesa di ciascuna regione e provincia autonoma. In altre parole, fino a oggi non vi è stata una integrazione tra le banche dati regionali e quella ministeriale cosicché il ministero della Salute non ha né informazioni precise, né capacità di controllo su quanto avviene nelle venti regioni italiane in termini di tempi di attesa, disponibilità delle agende, saturazione delle risorse umane e tecnologiche, appropriatezza delle prescrizioni.
Tutto ciò dovrà dunque essere fatto a partire da oggi, sempre che la giungla informatica che caratterizza l’amministrazione pubblica non si riveli un ostacolo insormontabile. Una brutta gatta da pelare per Agenas che dovrà fare il lavoro «… senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica».
L’articolo 2 si occupa ancora del controllo centrale sull’operato delle regioni. Dando per scontato (e abbiamo visto che non sarà così) che i dati arrivino al ministero e siano di buona qualità, toccherà a un organismo di nuova istituzione (indicato un po’ orwellianamente come «L’Organismo») utilizzarli per «vigilare e svolgere verifiche presso le aziende sanitarie locali ospedaliere e presso gli erogatori privati accreditati sul rispetto dei criteri di efficienza e di appropriatezza nella erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie e sul corretto funzionamento del sistema di gestione delle liste di attesa…».
È poco chiaro se e come questo possa aiutare a ridurre i tempi d’attesa. Quello che invece è certo è che verranno assunti trenta nuovi funzionari per un costo stimato di un milione di euro all’anno. Al comma 3 entra in campo anche il Comando dei Carabinieri, che dovrà «verificare e analizzare le disfunzioni emergenti a seguito del controllo delle agende di prenotazione su segnalazione del cittadino, degli enti locali e delle associazioni di categoria degli utenti».
Come se il problema fossero delle fattispecie di reato (sempre possibili, ma marginali) e non la ben nota carenza di personale. Consoliamoci sapendo che anche i Carabinieri dovranno lavorare senza oneri a carico dello stato.
Faccelo sapere
Nell’articolo 3 compaiono alcune proposte che a prima vista promettono un possibile impatto sul problema. Si stabilisce qui che i Centri unici di prenotazione (Cup) debbano avere accesso ai loro omologhi delle strutture private accreditate (perché fino a ora no?) e si afferma, con un giro di parole che lascia spazio a molti dubbi, che la mancanza di collaborazione da parte delle strutture private potrebbe mettere a rischio il loro stesso accreditamento presso gli assessorati regionali.
Segue una prima, apprezzabile, indicazione ad «attivare un sistema di disdetta delle prenotazioni, per ricordare all’assistito la data di erogazione della prestazione, per richiedere la conferma o la cancellazione della prenotazione effettuata, da effettuarsi almeno due giorni lavorativi prima dell’erogazione della prestazione, anche in modalità da remoto».
Peccato che diverse regioni già lo facciano da molti anni (la Toscana dal 2006!), con una significativa, ma non risolutiva, discesa della percentuale di pazienti che non si presentano all’appuntamento (indicativamente dal 25 per cento a poco meno del 20 per cento). Meno positivo è stato il progetto (ribadito anche da questo decreto) di far pagare le prestazioni non usufruite, visto che molti pazienti sono esenti dal ticket e che le modalità di recupero crediti non si sono rivelate particolarmente efficaci.
Il comma 10 dello stesso articolo stabilisce inoltre che, nell’eventualità che i tempi previsti dalle classi di priorità individuate (sono quattro e variano da un minimo di 72 ore per i casi urgenti a un massimo di 120 giorni per quelli programmabili) non possano essere rispettati, «…le direzioni generali aziendali garantiscono l’erogazione delle prestazioni richieste attraverso l’utilizzo dell’attività libero-professionale intramuraria o del sistema privato accreditato».
Quanto sopra nei limiti di quanto già previsto dal bilancio di previsione 2024-2026, e ancora una volta, come viene ribadito nel comma 12, senza che ne derivino nuovi oneri per la finanza pubblica. Accettando per ipotesi che i finanziamenti si trovino, resta da vedere quanto lavoro extra si potrà ancora chiedere a medici che spesso lavorano molte più ore settimanali delle 38 previste per contratto e che nel 50 per cento dei casi già dedicano ulteriori ore alla libera professione intramuraria.
Nuove assunzioni
L’articolo 4, fingendo che il problema della scarsità di medici sia stato a questo punto risolto aprendo ulteriori spazi all’attività privata e libero professionale, si lancia con entusiasmo a proporre di fare esami anche il sabato e la domenica e negli orari serali. Naturalmente la cosa non era proibita, e qualche regione ci aveva anche provato, dovendo però presto rinunciare per mancanza di personale disponibile ad aggiungere ulteriori week-end a quelli già normalmente lavorati. Tetragono nella propria austerità, il Consiglio dei ministri conclude anche questo articolo ricordando che a tutto si deve provvedere nell’ambito delle risorse già stanziate nella legge di Bilancio, e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Nascono e muoiono velocemente anche le speranze suscitate dall’articolo 5 che, con anni di ritardo, promette il superamento del tetto di spesa per l’assunzione del personale sanitario. La cosa partirà però dal 2025 e si tratta di tutto fuorché di un automatismo.
In altre parole, i se e i ma sono tanti. Saranno infatti necessari ulteriori decreti del ministero della Salute e di quello dell’Economia e l’elaborazione in Conferenza Stato-Regioni di una nuova modalità per il calcolo delle necessità di personale.
L’entità prevista dell’aumento di spesa è «il 10 per cento dell’incremento (non del totale, ndr) del fondo sanitario regionale rispetto all’esercizio precedente». L’articolo 6 riguarda il potenziamento dell’offerta assistenziale per il rafforzamento dei Dipartimenti di salute mentale. Si tratta di una norma di carattere programmatorio che non è finanziata in modo specifico perché le risorse necessarie sono “a valere” su quelle del Programma nazionale equità.
Meno tasse sul lavoro privato
L’articolo 7, l’ultimo del decreto, torna sul tema delle risorse umane e fa nascere nuove speranze di trovarvi interventi di pronto utilizzo. In realtà, per quanto riguarda la necessità di prestazioni aggiuntive, si fa semplicemente riferimento a quanto già previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto Sanità per il triennio 2019-2021.
In altre parole, le regioni sono autorizzate a impiegare i medici dipendenti in orari aggiuntivi con una retribuzione che, oltre alle maggiorazioni di compenso orario già previste a fine 2023, verrà ora accompagnata da una tassazione ridotta al 15 per cento (è la prima volta in assoluto che benefici di defiscalizzazione vengono estesi a pubblici dipendenti, anche se solo per una quota limitata dei loro guadagni da libera professione intramuraria).
Finalmente, la montagna ha partorito il suo topolino. Unica soddisfazione, si fanno finalmente delle cifre di spesa: quasi 200 milioni di euro per l’anno 2025, e circa 130 per il 2026 e il 2027. Soldi che verranno, sembra di capire, in parte dalla riduzione di 25 milioni dei fondi per i danneggiati da trasfusioni e vaccinazioni e per il resto dalla riduzione delle risorse destinate al perseguimento degli obiettivi sanitari di carattere prioritario e di rilievo nazionale (in fondo quali, se non questo?).
In conclusione, ci saranno più controlli centrali, comunque di non semplice attuazione, si aumenterà ulteriormente il ricorso al privato (di professionisti e di strutture) e si sposteranno finanziamenti da altri capitoli altrettanto rilevanti, per un totale che molti presidenti di regione considerano largamente inadeguato. Soprattutto, si rimanda la vera e unica soluzione, che non è quella di far lavorare di più chi è già in servizio, ma quella di aumentare in modo congruo gli organici allo stremo.
Difficile che i cittadini si rendano conto che qualcosa è cambiato, ma le elezioni sono passate e le liste d’attesa torneranno presto a essere derubricate a ordinaria amministrazione.
Per onestà intellettuale, non si può negare che il problema abbia dimensioni e complessità tali da non prestarsi a facili né rapide soluzioni, specialmente in tempi di grandi difficoltà di bilancio. Bisognerebbe forse allargare lo sguardo al sistema nel suo complesso e alle tante cause, anche diverse dalla carenza di personale, che rendono ingestibile la richiesta di prestazioni mediche. Ci ritorneremo.
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