- A trent’anni da Tangentopoli una cosa è certa: i re del malaffare sono vivi e lottano insieme a noi, la corruzione è ancora endemica e di sistema, il finanziamento illecito ai partiti è una consuetudine.
- La magistratura non ha strumenti efficaci per indagare e punire questi reati, mentre i partiti hanno tutto l’interesse non porre la questione dal punto di vista etico. Basta che le operazioni siano formalmente lecite.
- Una politica povera, sempre alla ricerca di soldi per organizzare feste, incontri, convegni, campagne elettorali, non può fare altro che accettare aiuti da chiunque. Il finanziatore privato però non ama il più delle volte comparire. Ecco così il proliferare di associazioni e fondazioni collegate ai partiti, ma ufficialmente sconnesse dal movimento politico.
A trent’anni da Tangentopoli una cosa è certa: i re del malaffare sono vivi e lottano insieme a noi, la corruzione è ancora endemica e di sistema, il finanziamento illecito ai partiti è una consuetudine, amplificata dall’abolizione del sostegno pubblico con la legge del 2013 firmata dal governo di Enrico Letta.
Una differenza tra ieri e oggi tuttavia c’è. Cittadini, politici, imprenditori e magistrati, al contrario degli anni di Mani pulite, considerano il reato di finanziamento illecito alla stregua del furtarello di una scatola di cioccolatini in un supermercato. Poca roba, insomma.
Il 17 febbraio del 1992 l’Italia che aveva assistito all’arresto di Mario Chiesa e all’inizio di Tangentopoli era ancora un paese capace di indignarsi di fronte a fenomeni distorsivi della democrazia e del mercato.
«Il finanziamento pubblico è un reato che si prescrive rapidamente e non si possono autorizzare intercettazioni», è la sfogo di un importante magistrato che per tutta la vita ha inseguito colletti bianchi del crimine e imprenditori delle tangenti. Non è il solo.
«Lo sforzo di dimostrare che la dazione di denaro al partito o alla fondazione è illegale non vale il risultato finale, vanificato il più delle volte da prescrizione incombente e da condanne bassissime che spesso non superano i pochi mesi», dice un altro procuratore della repubblica, che aggiunge: «Se dalla donazione riusciamo a individuare un ritorno in termini di favori, concessioni, appalti, allora cambia l’ipotesi di reato in corruzione e il codice ci offre un ventaglio di strumenti maggiore per indagare».
È un sentimento diffuso nella magistratura, che di fronte a pene da 6 mesi a 4 anni (difficilmente concessa) e una prescrizione che è quasi la norma non impegna mezzi e risorse come nelle indagini per corruzione o associazione per delinquere.
Per avere un dato comparativo, il codice penale punisce il furto semplice, per intenderci chi ruba il latte in un negozio, con pene dai 6 mesi ai 3 anni.
Del resto sono gli stessi leader di partito a sottovalutare la pericolosità di un reato che condiziona le scelte pubbliche di chi è foraggiato.
E comunque al di là del rilievo penali da chi rappresenta le istituzioni ci aspetta maggiore attenzione rispetto alle conseguenze che può avere la donazione di una multinazionale a un politico.
La politica, a differenza dalla magistratura, non persegue reati, ma dovrebbe tuttavia essere capace di distinguere tra ciò che è eticamente opportuno e ciò che non lo è: non sarà per forza di cose reato, ma è etico accettare soldi da un’impresa le cui sorti dipendono da decisioni di quel politico?
Non sarà illegale, ma è corretto beneficiare di fondi privati riconducibili a imprenditori che aspettano concessioni pubbliche da chi è stato finanziato?
«C’è scarsa percezione di come le donazioni dei privati possano condizionare le scelte politiche, e questo è ancor più grave in un momento storico in cui la politica è più debole rispetto al passato e agli anni pre Tangentopoli», dice Stefano Vaccari, responsabile organizzazione del partito democratico, al cui interno da tempo è in atto un dibattito sulla reintroduzione del finanziamento pubblico.
A separare il reato di finanziamento illecito dalla corruzione è una linea sottilissima: è sufficiente dimostrare che alla donazione è corrisposta una contropartita.
Lo stesso vale per un altro delitto introdotto qualche anno fa: il traffico di influenze. Anche in quest’ultimo caso tutto può nascere da un finanziamento all’apparenza legale, che però è servito a entrare in ambienti grazie ai quali ottenere commesse e favori che valgono milioni.
A trent’anni da Mani pulite, dunque, che cosa è cambiato? È rimasto immutato l’intreccio tra interessi privatistici e partiti che attraggono finanziatori. Immutati sono rimasti i plurimi conflitti di interesse tra chi paga e chi deve decidere.
Mutati, invece, sono i metodi di finanziamento ai partiti, camuffato a volte dietro consulenze, pubblicità sui giornali o emittenti di partito, o donazioni ad associazioni e fondazioni solo all’apparenza slegata dai leader.
È cambiato anche il rapporto di forza tra politica e imprese: negli anni di Mani pulite la prima dettava le regole, le seconde accettavano e pagavano in silenzio. Oggi è il privato consapevole della fragilità finanziaria dei partiti a primeggiare e sfruttare lo stato di necessita dei partiti.
Ci sono storie però che si ripetono. Pressoché identiche. Come nel caso della Lega, i cui tesorieri ai tempi di Mani pulite e ai giorni nostri sono stati indagati e processati per finanziamento illecito.
Un po’ di storia
Quando nel 1974 la Camera e il Senato avevano approvato la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, nel paese c’era il sentore che qualcosa di enorme stava per accadere.
E infatti due anni dopo è lo scandalo Lockheed ad aver svelato le commistioni tra colossi dell’industria privata e gli alti vertici della politica italiana.
Le conseguenze sono tali da provocare le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, bersagliato dalle critiche e dai sospetti nella gestione degli affari militari con l’azienda americana.
La legge del 1974 è conosciuta con il nome del due volte segretario della Democrazia cristiana, Flaminio Piccoli. Erano nell’aria gli scandali, gli interpreti di quelle trame da Prima repubblica erano figure equivoche come il banchiere Michele Sindona, che foraggiavano la classe politica e da questa, in particolare dalla Dc, erano favorite.
Era dunque questo il clima in cui matura la necessità di liberare la politica dal bisogno del denaro ottenuto dai privati, portatori di interessi particolari o persino criminali.
È curioso che la legge sul finanziamento pubblico abbia anticipato di alcuni anni due dei più grandi scandali italiani. In pratica Lockheed e Sindona erano la prima vera manifestazione dei sintomi di una patologia che covava nell’organismo, già diagnosticata ma taciuta pubblicamente da chi rappresentava le istituzioni in quel periodo storico.
La legge Piccoli è durata fino al 1993, non sopravviverà al maremoto giudiziario di Tangentopoli seppure nell’inchiesta Mani pulite il focus non fosse sulle ruberie del denaro pubblico sgorgato dai finanziamenti pubblici, ma la corruzione sistemica tramite bustarelle dei partiti per ottenere favori, concessioni, appalti.
Eppure sono state proprio le indagini di Milano del pool di magistrati guidati da Antonio Di Pietro ha scatenare le prime vere pulsioni anti casta: il feticcio dello spreco e di tutti i mali della politica è stato individuato nel finanziamento pubblico, abolito nel 1993 con un referendum proposto dai Radicali di Marco Pannella.
Da quel momento il meccanismo di sostegno alla politica è diventato opaco, ipocrita, truffaldino. Perché al posto della legge Piccoli (che non era la migliore norma del mondo) era stato introdotto il rimborso elettorale ai partiti dietro presentazione di rendiconti scarsamente verificati.
Il sistema è andato avanti fino al 2010, da lì in poi due nuovi eventi giudiziari hanno riportato indietro nel tempo il dibattito politico: il caso Lusi e il caso Belsito. Il primo tesoriere della Margherita, il secondo della Lega Nord. Implicati in due indagini differenti con al centro i rimborsi elettorali.
La vicenda leghista ha avuto conseguenze di cui si parla ancora oggi: la truffa contestata a Belsito e Umberto Bossi, il fondatore del partito, è stata quantificata dai giudici in 49 milioni di euro di rimborsi ottenuti con bilanci falsi.
Il tesoretto accumulato va restituito allo stato, hanno stabilito i giudici. Così anche Matteo Salvini, l’attuale segretario, sta pagando per una vicenda che ha ereditato e che ha dovuto gestire arrivando all’accordo con la procura di Genova per la restituzione del malloppo in oltre 70 anni con rate annuali.
Lusi e Belsito hanno però riportato in auge l’indignazione anti casta: basta denaro pubblico ai partiti, lo slogan fatto proprio dal Movimento 5 stelle, cavalcato da Matteo Renzi e applicato da Enrico Letta, il cui governo sarà ricordato per aver abolito i finanziamenti pubblici.
Dai partiti alle associazioni
La fine delle elargizioni di stato a chi rappresenta i cittadini nelle istituzioni non ha però frenato il malaffare né ha arginato le interferenze dei privati nell’attività parlamentare.
Il risultato della demonizzazione del sostegno pubblico è stato aver dato in pasto i partiti agli interessi di multinazionali, aziende, lobbisti e faccendieri vari che operano per conto terzi (anche per paesi esteri).
Una politica povera, sempre alla ricerca di soldi per organizzare feste, incontri, convegni, campagne elettorali, non può fare altro che accettare aiuti da chiunque.
Il finanziatore privato però non ama il più delle volte comparire. E visto che se pago un partito devo dichiararlo, ecco proliferare centinaia di associazioni e fondazioni collegate ai partiti, ma ufficialmente sconnesse dal movimento politico.
Le fondazioni così come le associazioni culturali hanno meno obblighi di trasparenza, a meno che nei board non siano presenti parlamentari. Il paradosso è che la legge del governo Letta ha legittimato ciò che è stato svelato da Tangentopoli: soldi privati ai partiti.
Non è un caso che in molti processi di allora non tutti erano accusati di corruzione, cioè di avere intascato la bustarella in cambio di qualcosa, diversi erano gli imputati di finanziamenti illecito.
La differenza è che all’epoca cittadini, investigatori, magistrati, consideravano quest’ultimo reato un delitto non secondario, al contrario era ritenuto gravissimo al pari delle mazzette. E il motivo è semplice: lasciare che i soldi di privati indirizzino la vita pubblica equivale ad accettare il fatto di vivere in una democrazia deviata verso gli interessi di pochi, che pagando potevano influenzare le scelte di amministratori, ministri, parlamentari.
Dibattito politico
A sinistra c’è un ampio fronte per il ritorno al finanziamento pubblico. Anche all’interno del Partito democratico. Il Movimento 5 stelle dopo gli anni di guerra non è chiaro se abbia rivisto le proprie convinzioni alla luce dei continui casi giudiziari recenti su soldi privati e politica, tra questi quello che riguarda il loro fondatore Beppe Grillo e l’azienda Casaleggio&Associati, quest’ultima non indagata ma ampiamente citata per aver ottenuto svariati milioni di euro da società e multinazionali nel periodo del governo Conte I.
A destra c’è Giorgia Meloni, favorevole a reintrodurre il meccanismo, così come Forza Italia. Matteo Salvini non si è mai espresso sulla questione, comprensibile visto che il tesoriere del suo partito è sotto processo a Milano e Roma per aver ottenuto denaro da aziende private tramite un’associazione culturale creata ad hoc, sostengono i pm, per veicolarli al partito.
Di certo all’interno del Pd il dibattito sulla reintroduzione del contributo statale è in fase più avanzata.
Vaccari spiega che è in atto da tempo un confronto su «come dare attuazione all’articolo 49 della costituzione». Il principio citato da Vaccari recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Per garantire questo diritto sono necessarie delle risorse. Una parte dei democratici crede sia preferibile ricorrere al denaro pubblico, una critica non troppo velata alla legge con cui il governo Letta (ora segretario Pd) ha archiviato il finanziamento pubblico.
Vaccari aggiunge: «Stiamo discutendo all’interno del partito di come riformare il sostengo pubblico, l’obiettivo è garantire maggiore autonomia da interessi economici particolari». Una delle proposte è per esempio legare i fondi dello stato a obiettivi speficici come accade in Europa: «Per rafforzare la formazione politica, in modo tale da destinare le risorse a finalità precise».
Vaccari e larga parte del Pd sono convinti che l’abolizione del finanziamento pubblico non abbia risolto nulla, anzi. «I partiti sono finiti sotto ricatto», è il giudizio di Vaccari.
L’organizzazione Transparency International ha avviato un monitoraggio costante dei finanziamenti privati alla politica. Dal 2018 al 2020 i partiti hanno ricevuto quasi 70 milioni di euro.
Dalle tabelle ufficiali della tesoreria del parlamento possiamo sommare il 2021, arrivando così a circa 100 milioni in tre anni. La maggior parte arriva da parlamentari che versano mensilmente una quota del proprio stipendio al partito.
Subito dopo troviamo società di capitali, fondazioni e associazioni varie per un totale di quasi 20 milioni. Un altro dato che emerge è la presenza tra i donatori dei politici di fondazioni a loro collegate. È una sorta di filtro che produce opacità. Difficile, infatti, risalire a chi ha dato i soldi alla fondazione, che a sua volta a versato al partito o al leader.
Toti, Renzi e la Lega
Alla data del 21 febbraio 2022 i tesorieri di partito sotto processo per finanziamento illecito sono due: Giulio Centemero, della Lega di Matteo Salvini, e Francesco Bonifazi, contabile del Pd ai tempi di Matteo Renzi e ora in Italia viva.
Il primo è due volte imputato, a Roma e a Milano. Nella capitale si deve difendere dall’accusa di avere ricevuto 250mila euro dal costruttore romano Luca Parnasi destinati alla Lega ma fatti passare dall’associazione Più Voci.
Nel processo milanese deve rispondere dei soldi di Esselunga che hanno compiuto il medesimo tragitto di quelli di Parnasi. I pm di Milano hanno chiesto 8 mesi di condanna per Centemero e definito la Più Voci un’associazione che «non esiste».
Otto mesi è la stessa condanna ricevuta ai tempi di Mani pulite dall’allora tesoriere Alessandro Patelli, che aveva confessato di avere preso 200 milioni di lire da Montedison.
Per questa donazione, che valeva la metà di quella versata da Parnasi tra il 2016 e il 2018, è stato condannato anche Umberto Bossi, leader del partito.
E Patelli finì per qualche giorno in carcere subito dopo le rivelazioni del manager di Montedison. Alla Lega di oggi è andata di lusso: nessuna custodia cautelare, Salvini mai indagato e 250mila euro, che secondo le tabelle di conversione Istat equivalgono a circa 363 milioni di vecchie lire nei primi anni Novanta, valore molto più alto rispetto alla stecca Montedison.
Bonifazi invece è sotto processo sempre per soldi di Parnasi transitati dalla fondazione Eyu. Per Italia Viva non è l’unico guaio. Da poche settimana i pm di Firenze hanno chiesto il rinvio a giudizio per Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi: l’accusa? Ancora finanziamento illecito alla corrente renziana del Pd.
Diversi milioni di euro ottenuti attraverso la fondazione Open, che per i pm è stata una vera articolazione di partito, o meglio dei renziani.
Ancora in corso è l’indagine della procura di Genova sui denari incassati dalle fondazioni di Giovanni Toti, il presidente della regione Liguria. Come Open, ha incamerato molti milioni da industriali, armatori, costruttori, cliniche private.
Tutte società che hanno interessi sul territorio amministrato da Toti e dalle cui decisioni dipendono concessioni che valgono oro. Il nome di Toti non risulta nel gruppo di indagati, la cui identità resta ancora top secret. Ancora una volta l’ipotesi è finanziamento illecito.
Cambiano le sigle, i leader, le cifre e le i nomi delle aziende. Ma tutto il resto sembra riportarci a trent’anni fa, al giorno dell’arresto di Mario Chiesa. Perché nulla è cambiato nell’Italia del 2022.
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