Mario Francese evidenziò come le risultanze investigative confermassero che il colonnello Russo era stato soppresso «per volontà della mafia “vincente” nel triangolo Corleone-Roccamena-Partinico», in quanto aveva urtato interessi inerenti ai subappalti concessi dall’impresa Lodigiani. Il cronista inoltre non nascose il suo scetticismo sugli ulteriori sviluppi che privilegiavano la tesi del coinvolgimento di Casimiro Russo, dei fratelli D’Armetta e dei fratelli Mulè nell’assassino dell’ufficiale
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Nell’articolo di seguito riportato, apparso sul "Giornale di Sicilia" del 9 luglio 1978, Mario Francese evidenziò come le risultanze investigative confermassero che il colonnello Russo era stato soppresso «per volontà della mafia “vincente” nel triangolo Corleone-Roccamena-Partinico» in quanto aveva urtato interessi inerenti ai subappalti concessi dall’impresa Lodigiani:
Depositate le prime perizie sull'efferato duplice assassinio di Ficuzza.
Indiziati dell'omicidio del col. Russo: positivi (per alcuni) i guanti di paraffina.
Non è stato ancora resa nota la misura della positività e se si tratti di presenza di polvere da sparo per uso o per maneggio d'arma
Ad una svolta le indagini giudiziarie per la strage di Ficuzza del 20 agosto dello scorso anno, vittime il colonnello Giuseppe Russo e l'insegnante di Misilmeri Filippo Costa? Tutto fa prevedere che l'istruttoria del giudice Pietro Sirena, nei prossimi giorni, si rimetterà in moto potendo contare su elementi nuovi che gli sono pervenuti proprio in questi giorni. Elementi che sono stati raccolti in due direzioni diverse. In primo luogo, nella cancelleria del magistrato inquirente sono state depositate le perizie sui guanti di paraffina eseguite, subito dopo la soppressione di Russo e Costa, ad una mezza dozzina di persone sospettate. Sembra, secondo attendibili indiscrezioni, che alcuni esami chimici sui "guanti" abbiano dato esito positivo. In che misura non è dato saperlo. Le perizie saranno esaminate dal dottor Sirena a partire da lunedì e non è escluso che i risultati a cui sono pervenuti gli esperti chimici possano dare al magistrato un orientamento decisivo.
Nella cancelleria del dottor Sirena sono state anche depositate alcune perizie foniche e dialettologiche. Erano state eseguite da esperti della materia, cui erano state affidate per esami, su una serie di bobine contenenti intercettazioni telefoniche. Dovrebbe trattarsi delle intercettazioni eseguite sugli apparecchi dei tecnici della impresa Lodigiani, che ha in appalto i lavori di costruzione della diga Garcia, tra Roccamena e Camporeale.
E' noto che tra la metà del 1975 e per diversi mesi del 1976, l'impresa Lodigiani oltre a subire, in alcuni cantieri del centro-meridione e nella sede di Milano, quattro attentati dinamitardi, ricevette una sfilza di telefonate intimidatorie e con richieste di denaro.
Attentati e telefonate cessarono dopo l'inizio dei lavori a Garcia e dopo l'estromissione delle forniture di inerti e conglomerati dell'imprenditore di Montevago, Cascio, in rapporti di stretta amicizia col colonnello Russo.
Sono oltre una decina le telefonate intercettate e registrate su cui sono state eseguite perizie fonetiche e, in particolare, dialettologiche. Se le nostre informazioni sono esatte, i periti avrebbero sostenuto che le persone che telefonavano ai Lodigiani erano parte di Corleone e parte di Palermo.
Se le notizie in nostro possesso corrispondono all'esatta conclusione dei periti, dovrebbe prendere consistenza la causale indicata dai carabinieri per l'agguato di Ficuzza: Russo e Costa, cioè, sarebbero stati uccisi per aver urtato interessi di persone che avevano rivolto la loro attenzione ai remunerativi subappalti della Lodigiani. Persone che, stando alle indiscrezioni sulle perizie dialettologiche, sarebbero anche di Corleone.
Sarebbe confermato cioè che Russo è stato soppresso per volontà della mafia "vincente" nel triangolo Corleone-Roccamena-Partinico. E si spiegherebbe pure perché Russo è stato ucciso a Ficuzza. Una spiegazione necessaria per l'indagine giudiziaria, ma non per gli investigatori, i quali dal primo momento si erano resi conto che nessun mafioso avrebbe potuto mai uccidere Russo in territorio di Corleone (e Ficuzza è una frazione del corleonese) senza almeno l'autorizzazione e il beneplacito della mafia che domina nel circondario e che ha una sua potente organizzazione, oltre che in tutta la Sicilia occidentale (con appendici anche nel catanese), anche nella penisola (vedi organizzazione dell'"anonima sequestri").
Nessuna indiscrezione è trapelata finora sui personaggi ai quali dopo la strage di Ficuzza erano stati prelevati i guanti di paraffina. Ma non è difficile intuire che si tratti di persone del clan di Liggio e soci oltre che di Gerlando Alberti "u paccarè". Alcune di esse, residenti a Palermo (o in sue borgate) si erano trasferite al nord, dove sono state raggiunte dai carabinieri dopo il tragico 20 agosto di Ficuzza.
Nei prossimi giorni potremo sapere in che misura i guanti di paraffina sono risultati, per alcuni indiziati, positivi e potremo pure sapere se la positività è riferita a sparo da armi da fuoco o a semplice maneggio. Nella prima ipotesi (positività da uso) la posizione giudiziaria degli indiziati si potrebbe fare pesante.
Per quanto riguarda, invece, i risultati delle perizie dialettologiche, è certo che il dottor Sirena avrà ora in mano elementi per procedere ad eventuali comparazioni di voci.
Che del resto la matrice dell'omicidio Russo fosse del corleonese lo si era capito dal momento che i periti balistici, che avevano preso in esame i proiettili che il 29 luglio 1977 avevano ucciso nella centrale piazza di Corleone il possidente Giovanni Palazzo, erano risultati identici a quelli che avevano ucciso Russo. Ed erano risultati sparati, per giunta, dallo stesso revolver usato da uno dei killer dell'ufficiale dell'Arma.
Un’inchiesta lenta
Una completa sintesi della vicenda fu esposta da Mario Francese nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 19 agosto 1978:
Mafia e quindi un mistero.
Un anno di indagini giudiziarie.
Una sola certezza: la stessa arma aveva ucciso Palazzo
L'inchiesta giudiziaria sul duplice omicidio di Ficuzza è partita dall'arresto per reticenza, avvenuto il 25 agosto, del patriarca locale, il boss Vincenzo Catanzaro, 70 anni, e dei contadini di Marineo Giovanni Spinella e Ciro Benga. Ciò mentre, alla caserma Carini, veniva controllato l'alibi del boss Giuseppe Ciulla, 40 anni, dell'"anonima sequestri" di Luciano Liggio, soggiornante obbligato a Trezzano sul Naviglio ma in permesso a Palermo il 20 agosto 1977.
Rilasciato Ciulla, dopo i controlli e il prelievo del guanto di paraffina, restano dentro per alcune settimane Catanzaro e i due marinesi, i quali negano di essere stati a conoscenza (ma un boss - difficilmente è tenuto all'oscuro di un'operazione prevista sul suo territorio) della esecuzione di Russo e Costa o di averla favorita in alcun modo. Acquisteranno la libertà provvisoria dopo un mese di carcere e continuano ad essere imputati a piede libero di scarso rilievo del processo per la strage di Ficuzza.
Ripercorriamo le tappe dell'indagine giudiziaria, snodatasi tra varie città italiane e punteggiata da decisioni "a sorpresa" che tuttavia non hanno ancora consentito di raggiungere risultati concreti.
Trascorrono, quindi, circa tre mesi prima che i carabinieri, squadra mobile e criminalpol presentino, il 18 novembre 1977, il primo rapporto sulla strage di Ficuzza col quale fanno il punto alla Procura della Repubblica (sostituto Giuseppe Pignatone) sugli elementi acquisiti in tre mesi d'indagini di polizia giudiziaria. Il rapporto provoca (venerdì 9 dicembre) l'emissione, da parte del magistrato inquirente, di alcuni ordini di cattura, che vennero eseguiti contemporaneamente in diverse città della penisola.
All'Ucciardone finirono l'ing. Vincenzo Lodigiani, contitolare dell'omonima impresa che ha in appalto i lavori di costruzione della diga di Garcia a Roccamena, arrestato a Roma; l'ing. Eros Bolzoni, tecnico della Lodigiani; l'ing. Mario Gazzola, pure della Lodigiani, prelevato a Reggio Calabria; il geometra Giuseppe Modesto, presidente della Società "Inco" di Camporeale, ex sindaco dello stesso paese e dipendente dell'amministrazione provinciale di Palermo; l'autotrasportatore Biagio Lamberti, di Borgetto, figlio di Salvatore, implicato con padre Agostino Coppola nel tentato omicidio di Francesco Randazzo, l'allevatore sfrattato di Piano Zucco.
L'imputazione contestata agli arrestati: favoreggiamento personale degli assassini di Russo e Costa. Con le loro reticenze, per l'accusa, avevano tentato di sviare il corso delle indagini sul duplice omicidio di Ficuzza.
Infine sei persone furono indiziate e fra queste alcune del clan di Luciano Liggio: Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, tutti latitanti.
Nel pomeriggio di sabato 10 dicembre, ad istanza del collegio di difesa, furono ammessi al beneficio della libertà provvisoria e scarcerati Vincenzo Lodigiani e gli ingegneri Eros Bolzoni e Mario Gazzola. Rimasero in carcere, ma ancora per un mese il geometra Modesto e Biagio Lamberti.
Gli arresti di Vincenzo Lodigiani e di alcuni tecnici dell'impresa furono conseguenza della causale prospettata soprattutto dai carabinieri per il duplice omicidio di Ficuzza. Personaggio-chiave dell'impalcatura accusatoria dell'Arma, l'imprendibile Rosario Cascio, presidente della "Imac" di Montevago, proprietario di cinque cantieri, nella Valle del Belice, per la produzione di inerti e conglomerati bituminosi e cementizi. I carabinieri indicarono nell'estromissione di Cascio dalla fornitura alla diga Garcia, appaltata ai Lodigiani, il motivo dell'eliminazione di Russo il quale era legato da rapporti di decennale amicizia con l'imprenditore di Montevago. L'intervento dell'ufficiale in favore dell'amico estromesso da Garcia avrebbe indotto la mafia della zona a decretare la sua soppressione. E a sostegno di questa tesi furono documentati vari tentativi di estorsione e una serie di danneggiamenti subiti dai Lodigiani a Milano e in vari cantieri della penisola fino al momento (maggio 1977) dell'estromissione di Cascio da Garcia e alla surroga dell'imprenditore di Montevago con la "Inco" di Camporeale, presieduta dal geometra Modesto.
A questa causale ne sono state aggiunte altre e tutte alternative: l'interessamento del col. Russo al mondo degli appalti, come consulente di grandi imprese (tesi della squadra mobile); l'interessamento dell'ufficiale, nonostante in congedo per motivi di salute, al giallo del big delle esattorie di Salemi, Luigi Corleo, rapito nel luglio del 1975 e mai più ritornato in famiglia.
Attenuatosi, fino a spegnersi, il clamore per l'arresto dei tecnici della Lodigiani, il giallo di Ficuzza ha fatto registrare un secondo colpo di scena nel febbraio 1978, allorché con un nuovo rapporto i carabinieri del nucleo investigativo collegarono il delitto Russo con alcuni omicidi avvenuti nel corleonese un mese prima dell'agguato di Ficuzza. In seguito ad accertamenti balistici fu accertato che la calibro 38 usata da uno dei killer di Ficuzza contro Giuseppe Russo era identica a quella adoperata da uno dei due assassini dell'allevatore Giovanni Palazzo, assassinato spettacolarmente nella piazza principale di Corleone la sera del 27 luglio 1977, 23 giorni prima del col. Russo.
I proiettili estratti dal cadavere di Russo, per rilievi tecnici, sono risultati identici a quelli che uccisero Palazzo e per giunta sparati dalla stessa arma.
La circostanza ha indotto il giudice istruttore a riunire il procedimento per l'agguato di Ficuzza con l'altro per la faida precedente nel corleonese e che portarono in galera Giovanni Ferrante, presunto boss di Prizzi, ma ritenuto mandante di quattro omicidi (Onofrio e Giovanni Palazzo, Salvatore La Gattuta e Marco Puccio), Salvatore Mazzamuto, indicato come l'assassino di Onofrio Palazzo, Francesco Mannuso e la moglie Carmela Raimondi, accusati di favoreggiamento, e infine, pure per favoreggiamento, Nicolò Tavolacci di Mezzojuso, la vittima di un abigeato che avrebbe provocato la faida.
Dopo la connessione dei due procedimenti, il giudice istruttore Pietro Sirena ha disposto tre perizie: balistica, per avere la certezza che l'arma usata per Russo fosse identica a quella usata per Giovanni Palazzo; fonetica sulle intercettazioni telefoniche effettuate sugli apparecchi Lodigiani, all'epoca delle estorsioni e dei danneggiamenti; chimiche, sui guanti di paraffina eseguiti su alcuni degli indiziati dell'omicidio Russo (sei).
Le tre perizie sono state depositate nell'ufficio del giudice istruttore tra la fine di maggio e giugno scorsi. E' venuta la conferma per quanto riguarda l'arma degli omicidi Russo e Palazzo. Per il resto è stato acquisito che gli estortori dei Lodigiani, per dialetto, sono del retroterra palermitano, non escluso Corleone. Più incerti i risultati sui guanti di paraffina, solo in uno dei casi scarsamente positivi e forse più per maneggio che per uso di arma da fuoco.
Si attende ora la fine delle ferie per l'inizio della seconda fase dell'istruttoria per il giallo di Ficuzza.
I dubbi sulle ipotesi investigative
Il cronista non nascose il suo scetticismo sugli ulteriori sviluppi investigativi che privilegiavano la tesi del coinvolgimento di Casimiro Russo, dei fratelli D’Armetta e dei fratelli Mulè nell’assassino dell’ufficiale. Nell’articolo di seguito trascritto, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 4 gennaio 1979, non firmato ma incluso dal figlio Giuseppe tra quelli scritti da Mario Francese (v. il verbale di assunzione di informazioni del 13 dicembre 1996 di Giuseppe Francese) si parlava dei D’Armetta e di Casimiro Russo come “strumenti di qualcuno che ha interesse a depistare le indagini sull'omicidio Russo”:
Sequestrata a un ambulante di Montelepre. Un'altra calibro 38 nelle indagini sul delitto Russo
Ancora una rivoltella calibro 38, semiefficiente, è entrata nel quadro delle indagini per l'omicidio del colonnello Giuseppe Russo e dell'insegnante Filippo Costa, uccisi a Ficuzza la sera del 20 agosto 1977. L'hanno sequestrata i carabinieri all'ambulante di Montelepre Vincenzo D'Armetta, 25 anni, fratello di Francesco ed amico di Casimiro Russo, arrestati nell'estate scorsa perché anche loro, trovati in possesso di cal. 38. Allora i due dichiararono di avere ricevuto le due cal.38 dai fratelli Mulè e che le due armi (dichiarazioni poi ritrattate in istruttoria) erano servite per il duplice omicidio di Ficuzza.
Francesco D'Armetta, Casimiro Russo e i fratelli Mulè finirono allora all'Ucciardone implicati nel caso Russo. Le armi loro sequestrate furono sottoposte a perizia e risultarono mezzo inefficiente, appunto come quella trovata ieri addosso a Vincenzo D'Armetta.
Questo diabolico giro di cal.38 non persuade per niente gli investigatori che ritengono i D'Armetta e Casimiro Russo strumenti di qualcuno che ha interesse a depistare le indagini sull'omicidio Russo. Infatti, perizie di ufficio avrebbero accertato che le prime due rivoltelle sequestrate a Casimiro Russo e a Francesco D'Armetta non hanno sparato né contro il colonnello né contro il Costa.
Vincenzo D'Armetta è, comunque finito, per possesso abusivo di rivoltella, all'Ucciardone e quasi certamente, in base alla nuova legge sulle armi, verrà processato nei prossimi giorni per direttissima.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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