Nella terza stagione di quella che al momento è una delle migliori serie tv americane, il racconto della cucina si sposta dalla pressione della creatività alle conseguenze da superlavoro nella vita del protagonista, e poi proprio nel lavoro
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Sono tre anni che la miglior serie tv in circolazione è una serie su uno chef e un terribile ristorante che fa panini con carne, trasformato con sudore, pressione e moltissimo montaggio in un locale che ambisce alla stella.
The Bear ha vinto premi, conquistato spettatori e mostrato, con un linguaggio ambizioso e innovativo per le serie, la storia di qualcuno che cerca di fare qualcosa di nuovo e ambizioso, ma in cucina. Più di tutto, però, questa serie ha ridefinito l’immaginario della cucina contemporanea, ovvero ciò che le persone immaginano quando pensano alla cucina. Per più di dieci anni, il cinema e la serialità hanno etichettato l’alta cucina come il reame della perfezione, del rigore e della marzialità. The Bear non lo nega, ma, esattamente come il suo protagonista, cerca di fuggire da quel mondo asettico e vessatorio della cucina, per proporre un’altra idea di creatività. Anche se questo costa fatica, e come si vede ora, è più difficile di quanto non si pensi.
Rappresentare l’evoluzione
Così, questa terza stagione di The Bear, disponibile in Italia dal 14 agosto su Disney+, parte con un episodio molto audace e ambizioso, senza parole, che unisce con una musica e un montaggio sofisticati gli anni di Carmine al lavoro in diversi ristoranti, attraverso la composizione di piatti. È una maniera particolare di mostrare l’evolversi della creatività e delle creazioni lungo il tempo, cioè come i piatti (ma in fondo qualsiasi creazione) cambino con il mutare delle persone e delle loro vite. Non c’è una trama in questa prima puntata, ma viene esposta la sensazione che pervaderà tutta la stagione, che riguarda ancora di più la salute mentale. Se prima era la pressione della cucina ad esaltare The Bear (rendendola una serie molto ritmata), in questa terza e più fiacca stagione a dominare è il racconto rallentato e quasi fermo della crisi di Carmine.
Se questa terza stagione ci dice qualcosa sull’evoluzione della percezione del mondo della cucina e della ristorazione, è quanto si stiano superando i temi strettamente legati al lavoro (il gusto, lo scavo nelle materie prime, lo studio, il legame con il territorio) e si stia finalmente iniziando a parlare dei problemi di quello che è diventato, per molti versi, uno dei lavori più ambiti e cercati (da che era il rifugio dei meno studiosi).
Sbocco emotivo
Ci sono ancora dei momenti di pura cucina, sia chiaro, ma sono meno, più marginali e più circoscritti. Oltre al primo episodio, che come detto unisce bene l’idea del fiorire di una creatività attraverso la realizzazione di piatti diversi e il miglioramento di questi piatti, ce n’è un altro in cui Marcus, lo chef addetto ai dolci, elabora un lutto attraverso la preparazione di nuove ricette. Che poi è esattamente quello che The Bear è riuscito a fare meglio di tutti i film o le serie che hanno trattato la cucina: raccontarla come un luogo in cui la creatività ha uno sbocco emotivo a partire dalla memoria, in cui ciò che si fa viene influenzato da ciò che si è vissuto. Quell’identità della serie non è morta, è solo messa da parte per un giro a vuoto, una stagione che prepara alla successiva invece di far accadere qualcosa. La puntata in cui si muovono di più le acque è l’ultima, perché lancia interrogativi e crea la tensione per quello che vedremo l’anno prossimo. Che non è il massimo.
Siamo stati abituati fino a oggi a un racconto, nei migliori casi, emotivo della cucina, cioè a quel nuovo modo di raccontarla introdotto negli anni Duemila che vuole che ogni ricetta, ogni pasto preparato a dovere, sia espressione dell’interiorità di chi lo ha fatto, in qualche maniera. The Bear ha sempre ratificato questa visione, ma le ha anche affiancato per la prima volta delle critiche alla maniera in cui la cucina viene vissuta.
Per questo, Carmine è un personaggio che sta sempre peggio, che mentre sembra raggiungere i suoi obiettivi, in realtà la sua vita peggiora: i suoi rapporti umani si fanno drammatici e anche quelli all’interno del locale aumentano in tensione o peggiorano in qualità, alienandolo dalle altre persone. Quello che dice questa terza stagione è che quell’idea del mondo della cucina, quella che a molti viene raccontata, che spesso è vera e che spinge molte persone a cercare di diventare chef, è tossica, fa male e non innalza le vite: le distrugge.
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