Vito Ciancimino ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero, gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile, ovvero la consegna dei latitanti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sotto altro aspetto, poi, si coglie un’ulteriore ragione per riconoscere la rilevanza del tema relativo all’indagine mafia e appalti. È, invero, tutt’altro che sottile il filo che lo lega all’oggetto specifico del presente giudizio, ove si abbia riguardo alla possibile incidenza — che la sentenza appellata afferma perentoriamente esservi stata — dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quell’indagine, e della sua determinazione a riprenderla ed approfondirla, sulla (presunta) brusca accelerazione che sarebbe stata impressa all’attuazione del progetto già pendente di ucciderlo.
In realtà, nella costruzione del percorso logico-probatorio che ha condotto il giudice di primo grado ad affermare la penale responsabilità di Subranni, Mori e De Donno quali concorrenti nel reato di minaccia a un corpo politico dello stato, un momento importante è dato dall’assunto, che si assume provato con certezza, secondo cui fu proprio l’avere avuto sentore che uomini dello Stato si erano fatti sotto per sollecitare l’apertura di un dialogo a indurre Salvatore Riina a imprimere quella brusca accelerazione, così sconvolgendo o modificando la sua scaletta degli attentati in programma (come quello in danno del Ministro Mannino).
E nella valutazione del primo giudice questa circostanza offrirebbe un primo e tutt’altro che secondario riscontro logico-fattuale all’ipotesi che Riina, non soltanto fu informato di quella sollecitazione al dialogo, ma vi intravide l’opportunità di sfruttare l’improvvida iniziativa dei carabinieri per trame il massimo vantaggio, nel senso di poter trattare da una posizione di forza.
A tal fine sarebbe servito dare alla controparte una nuova terrificante dimostrazione della potenza di Cosa nostra, che, implementandone in modo cruento il potere “contrattuale”, inducesse lo stato ad accettare condizioni altrimenti difficilmente proponibili e ad accogliere richieste altrimenti irricevibili.
Riina, quindi, avrebbe fatto precedere dalla nuova strage la formulazione di specifiche richieste, o le avrebbe formulate subito dopo la strage, affinché la controparte istituzionale comprendesse, senza possibilità di equivoco, che non esistevano margini per una possibile trattativa, cioè per un vero negoziato. In altri termini, una volta costatato che dopo e proprio a seguito della strage di Capaci lo stato manifestava segni di cedimento e di debolezza sollecitando l’avvio di un negoziato per fare desistere Cosa nostra da ulteriori spargimenti di sangue, un nuovo eccidio – e tale fu la strage di via D’Amelio per il modo in cui fu concepita oltre che attuata – sarebbe quindi servito a Riina a metterlo nelle condizioni di poter trattare da una posizione di forza, anzi di impostare la trattativa con lo Stato nell’unico modo a lui congeniale che non contemplava un estenuante negoziato ma solo l’accettazione delle condizioni da lui imposte.
E in questo senso talune affermazioni di Riina, nelle conversazioni con il co-detenuto Lorusso, captate a loro insaputa al carcere di Opera, e segnatamente quando dice di sé di non avere mai trattato con nessuno […] , deporrebbero non nel senso di negare che una trattativa vi sia stata, ma solo che egli abbia mai “negoziato” con qualcuno, consistendo l’unica trattativa per lui concepibile appunto nell’imporre le proprie condizioni in cambio della rinuncia a soddisfare le proprie pretese con la violenza.
E infatti quando dice che “Riina non trattava, ma furono gli altri che trattarono con lui” (cfr. conversazione intercettata il 10 ottobre 2013 [...]), esprime il medesimo concetto, volendo significare che erano stati altri a pendere l’iniziativa di trattare: con ciò implicitamente confermando, come rileva il giudice di prime cure, che una trattativa c’era stata, ma per iniziativa di altri che lo avevano invitato a far conoscere le sue richieste.
Sarebbe allora indirettamente provato, attraverso la logica concatenazione dei fatti accertati, anche ciò che i diretti protagonisti di quella trattativa (a parte lo stesso Riina) hanno, con accenti diversi, sempre negato o mai ammesso: e cioè che Riina fece avere, attraverso il canale aperto dai carabinieri con Ciancimino e Cinà un “pacchetto” di specifiche richiese, il c.d. “papello” da intendersi come condizioni (non negoziabili) per la cessazione di omicidi e stragi.
Ciancimino, Cinà e la trattativa
Invece, come s’è visto, Cinà, ammette di essere stato informato da Vito Ciancimino dei contatti intrapresi con i carabinieri del Ros, senza che, peraltro, gli specificasse cosa volessero («Ricordo bene che mi disse testualmente che preferiva morire piuttosto che tornare in carcere. Mi disse anche voleva ottenere il passaporto. A questo punto, aggiunse che mi doveva dire una cosa importante ovverosia che si erano rivolti a lui i Carabinieri facendomi il nome del colonnello Mori e del Capitano De Donno, ma non mi disse né le ragioni né cosa volessero»); ammette di avere altresì ricevuto dallo stesso Ciancimino la richiesta di metterlo in contatto con Riina («aggiunse ancora che voleva mettersi subito in contatto con la controparte»); nega però di averne informato il capo di Cosa Nostra, e afferma di avere detto subito a Ciancimino che questi aveva maggiori possibilità di lui di contattare le persone cui si riferiva («gli risposi comunque che era impossibile che io potessi aiutarlo, spiegandogli che non avevo modo di contattare nessuno, atteso che potevo incontrare le persone cui lui si riferiva solo su loro richiesta e solo dopo laboriosa accortezza. Gli accennai anche che era impossibile contattarli attraverso comunicazioni scritte, considerato che sarebbe trascorso almeno un mese. Aggiunsi che lui aveva sicuramente più possibilità di me per poterli contattare») suggerendogli tuttavia, giusto per chiudere il discorso, di farsi aiutare dai carabinieri ad aggiustare i suoi processi («nell'occasione, constatando il suo stato di prostrazione e depressione per i motivi che ho già detto, ne approfittai per suggerirgli, per chiudere il discorso, ritenendo improbabile che, se davvero il contatto vi fosse stato, di chiedere ai Carabinieri di aiutarlo nei suoi processi»).
Vito Ciancimino a sua volta, sia nelle sue dichiarazioni all’A.g che nei suoi scritti ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero (in cambio), gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile (ovvero la consegna dei latitanti). Come si vedrà nel prosieguo, Ciancimino non dice, ma neppure esclude, di avere ricevuto da Riina richieste o almeno indicazioni specifiche su cosa chiedere alla controparte in cambio della cessazione delle stragi, glissando su punto.
Quanto a Mori e De Donno, entrambi negano fermamente di avere mai avuto in visione un papello di richieste provenienti da Riina o altro esponente di vertice dell’organizzazione mafiosa, o che Ciancimino abbia fatto loro il minimo cenno a specifiche richieste avanzate dai vertici mafiosi, confermando che quel simulacro di trattativa — giacché a loro dire non avevano mai avuto alcuna reale intenzione di negoziare — si sarebbe infranta non appena i carabinieri, invitati dal Ciancimino a dire cosa fossero disposti ad offrire (per conto di chi li mandava), e non sapendo cosa dire, buttarono lì una proposta che loro per primi ritenevano ovviamente irricevibile per Cosa nostra.
Ebbene, è stato sforzo comune alle difese di Mori, Subranni e De Donno quello di provare che, se vi fu accelerazione nell’iter attuativo della strage di via D’Amelio — presupposto che non è affatto scontato — la causa ditale accelerazione non ha nulla a che vedere con la presunta trattativa, ma deve piuttosto ricercarsi nel rinnovato interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti; e nel timore dei vertici mafiosi — e degli influenti potentati con cui Cosa nostra aveva allacciato lucrose relazioni d’affari strutturate in un vero e proprio sistema di spartizione degli appalti — per i suoi potenziali sviluppi.
Nella diversa prospettazione difensiva, coltivata anche nel presente giudizio d’appello, verrebbe quindi meno, o ne sarebbe essenzialmente corroso, uno dei pilastri della piattaforma probatoria che supporta l’impugnata pronuncia di condanna, atteso che, nella ricostruzione sposata dalla Corte d’Assise di primo grado, la condotta costitutiva del reato per cui si procede prese corpo con la formulazione di specifiche richieste avanzate da Riina come condizione per la cessazione delle stragi, in tale correlazione sostanziandosi l’esternazione della minaccia a corpo politico dello stato.
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