In ogni caso, nella valutazione del giudice di primo grado, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
S’è visto come l’attribuzione a Calogero Mannino di un ruolo decisivo, ancorché derubricato a mero antecedente fattuale, per avere deliberatamente innescato l’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino resta un tassello fondamentale della ricostruzione sposata dal giudice di prime cure, per le sue ricadute sull’elemento soggettivo del reato per cui si procede. Ma il primo pilastro su cui poggiava questo tassello si è rivelato assolutamente inconsistente.
Altro caposaldo ditale ricostruzione, su cui ha insistito il p.g. nella sua requisitoria finale, è la triangolazione di contatti, incontri e riunioni che si sarebbero susseguiti tra Mannino, Subranni e Contrada contestualmente ai contatti instaurati da Mori e De Donno con Vito Ciancimino. Sarebbe stato infatti la triangolazione predetta a offrire l’occasione e la sede, nonché il momento, anzi i diversi momenti in cui prese corpo l’incarico che poi Subranni avrebbe girato ai suoi sottoposti.
E soprattutto quella triangolazione offrirebbe la prova logica che quella sollecitazione vi fu, anche se, come ammette la sentenza impugnata, non si è in grado di dire come, in che termini, e in quali circostanze concrete, sia stata veicolata al generale Subranni e da questi agli ufficiali alle sue dirette dipendenze.
Il primo giudice non insiste più di tanto sul tema delle presunte triangolazioni, desumendo anche da altre fonti di prova la certezza che Mannino abbia incontrato anche privatamente Subranni per parargli delle minacce ricevute, ricevendone a sua volta informazioni su progetti di attentati ai suoi danni e consigli sul da farsi.
Lo proverebbero la testimonianza e i reperti scritti del giornalista Antonio Padellaro, all’epoca vicedirettore del settimanale L’Espresso, che annotò scrupolosamente e quasi in tempo reale i passaggi salienti della mancata intervista, cioè delle rivelazioni “confidenziali” che off records il Mannino gli fece l’8 luglio 1992 (a condizione che non pubblicasse l’intervista né gli attribuisse le affermazioni e gli apprezzamenti esternati in occasione di quel colloquio che doveva rimanere strettamente confidenziale).
Lo proverebbe la nota a firma del generale Subranni in datata 19 luglio, che indica l’on. Mannino tra le personalità a rischio di possibili e imminenti attentati mafiosi, in quanto non potrebbe l’informazione acquisita dai carabinieri risalire alle rivelazioni fatte dal confidente del maresciallo Lombardo, in occasione della visita che lo stesso sottufficiale gli fece insieme al capitano Sinico al carcere di Fossombrone (e ciò in quanto lo stesso Sinico ha dichiarato che all’esito del colloquio con la sua fonte, il maresciallo Lombardo fece solo il nome del dott. Borsellino come possibile bersaglio di un attentato che si assumeva essere in itinere. Tant’è che lo stesso Sinico si precipitò ad informarne il procuratore, il giorno dopo a Palermo).
Lo proverebbe altresì la circostanza che già nel mese di marzo i comandi delle forze di polizia, compresa l’Arma, e i vertici degli apparati investigativi erano stati allertati da due allarmanti note a firma del capo della polizia e del ministro dell’interno che segnalavano il rischio concreto di attentati eclatanti, e annoverava il ministro Mannino insieme ad altri esponenti politici di rilievo tra i probabili bersagli dei segnalati attentati. E se si considera che il generale Subranni conosceva da tempo personalmente il ministro Mannino e in precedenza lo aveva incontrato più volte (come s’evince dalle dichiarazioni del generale Tavormina, anche non volendo considerare, per non avere trovato ingresso in questa sede i relativi verbali di prova dichiarativa, le ammissioni fatte dallo stesso Subranni in altre sedi processuali, come il procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa), non ci vuole molto a inferire che lo stesso Subranni debba avere parlato con il diretto interessato di quei pericoli per la sua incolumità dei quali cui aveva appreso attraverso canali interni agli apparati di polizia.
E lo proverebbe infine la testimonianza del generale Tavormina, che, sia pure tra tante riserve e residue reticenze ha finito per ammettere di avere lui stesso parlato con Mannino delle minacce che aveva ricevuto, e di averne parlato anche con Subranni, che a sua volta avrebbe incontrato Mannino sullo stesso tema e si sarebbe fatto carico, come Ros, del problema della sua sicurezza.
Ciò posto, a parere del primo giudice, «non è certo dubitabile che il gen. Subranni, incontrando a più riprese l’on. Mannino anche privatamente, non avesse già avuto modo di parlare col predetto del pericolo, che, secondo l’opinione delle più alte autorità addette alla sicurezza del paese. incombeva sullo stesso. Semmai va evidenziato che appare certamente anomalo che l’on. Mannino consapevole dell'elevato pericolo personale che correva, non si sia rivolto, innanzitutto, a funzionari della polizia di stato cui ufficialmente era affidata la sua tutela (...) ed addirittura, abbia, ad un certo momento, dopo la strage di Capaci rinunziato alla scorta...».
Per la verità i fatti danno torto a quest’ultima ricostruzione, o, almeno, sfumano di molto l’anomalia che il primo giudice ha ritenuto di potervi cogliere. La scorta a Mannino, infatti, non fu revocata, anzi, secondo quanto recitava il comunicato emesso dal ministero dell’interno e citato dallo stesso Scotti nel rievocare l’articolo pubblicato su la Gazzetta del Mezzogiorno del 1° giugno 1992 che riportava la notizia che Mannino intendeva rinunziare alla scorta, tale servizio venne rafforzato (o comunque il ministro Mannino fu invitato ad accettare che venisse rafforzato).
Quanto alla dichiarazione dello stesso Mannino di voler rinunziare alla scorta, essa non era sintomatica di indifferenza al pericolo di allentati alla sua persona — già segnalato con le richiamate note del capo della polizia e del ministro Scotti — ma neppure di una sua recondita intenzione di cercare vie traverse, e più efficaci di quelle ufficiali.
L’annuncio, lungi da costituire una manifestazione di spavalderia, poteva essere letto anche come una provocazione, volta a richiamare l’attenzione anche sul suo caso e sull’insufficienza dei mezzi apprestati per la tutela delle personalità a rischio; o più semplicemente era frutto dell’amara constatazione di quanto fosse inadeguata al livello di effettivo pericolo la tutela che poteva essergli assicurata dalla polizia di stato, alla luce di quanto confessatogli dallo stesso questore di Palermo e delle polemiche che proprio in quei giorni, e a seguito del clamore suscita sul tema anche dalla strage di Capaci, infuriavano sull’insufficienza di uomini e mezzi impegnati nella lotta alla criminalità organizzata e nei servizi di protezione.
Stando infatti alle confidenze falle ad Antonio Padellaro, il Mannino aveva parlato del problema con il questore – e dunque non risponde a verità che egli non si fosse rivolto alle autorità competenti a provvedere alla sua tutela –, ma questi aveva candidamente riconosciuto di non avere né il personale né i mezzi che sarebbero stati necessari per assicurargli un’adeguata protezione. E soprattutto lamentò che le forze di polizia non avessero il bagaglio minimo di conoscenze utili a fronteggiare il pericolo proveniente dalle organizzazioni mafiose.
Padellaro e Mannino
Inoltre, lo stesso Mannino, sempre a dire del giornalista Padellaro, appariva sinceramente preoccupato per la sorte dei ragazzi che gli facevano da scorta, e non voleva che per causa sua succedesse toro qualcosa di grave (lui era preoccupato per la sua scorta, mi disse, mi parlò molto bene di questi ragazzi che lo seguivano e mi disse: io vorrei evitare che se mi dovesse succedere qualcosa. fossero coinvolti essi stessi).
La sentenza eleva a sospetto pure la circostanza che delle minacce ricevute il Ministro Mannino avesse parlato, anche privatamente, con il generale Subranni, o comunque con i carabinieri e non ne avesse parlato invece con il ministro dell’Interno, che peraltro era suo collega di partito [«Non risulta, invece, che il Mannino avesse riferito di avere ricevuto le predette minacce e pressioni direttamente al ministro dell’interno, tanto da raccontare al Padellaro che, appunto, il ministro dell’interno in carica sino a pochi giorni prima, l’on. Scotti, non lo aveva mai contattato, dopo l'omicidio Lima, neppure con una telefonata (“Sono rimasto solo. Neanche una telefonata di Scotti”)»].
Anche su questo punto la lettura delle risultanze processuali proposta dal primo giudice è assai opinabile perché dalla testimonianza di Antonio Padellaro sembrerebbe piuttosto evincersi che Mannino si dolesse del silenzio di Scotti, cioè del fatto che, pur essendo il ministro dell’Interno “uscente” perfettamente al corrente della sua situazione, sotto il profilo del pericolo concreto e attuale pendente sulla sua incolumità (perché era il Ministro in carica quando era stata diramata la nota del Ros e perché erano stato, tre mesi prima, lo stesso Scotti e il capo della polizia Parisi a indicare Mannino tra le personalità a rischio di attentato; per non parlare del comunicato che ribadiva la necessità del servizio di scorta per Mannino), non gli avesse fatto neppure una telefonata per manifestargli la sua vicinanza e la sua solidarietà. E se l’iniziativa di contattare Vito Ciancimino — con tutto quel che ne seguì — fu intrapresa dai carabinieri su invito od ordine del generale Subranni e a seguito delle sollecitazioni rivoltegli dal Mannino.
Tali sollecitazioni risalirebbero all’epoca in cui era ancora Scotti il ministro in carica. In altri termini, non si potrebbe addebitare a Mannino, o elevare a sospetto il suo comportamento, per non essersi rivolto a Nicola Mancino, che sarà nominato Ministro dell’interno solo il 28 giugno, quando l’iniziativa in questione era già avviata.
In ogni caso, nella valutazione del giudice di prime cure, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Ma il generale Subranni, allora a capo del Ros, non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l’on. Mannino da eventuali attentati; né risulta che si sia adoperato, direttamente e quale comandante del Ros, o indirettamente, e cioè intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per l’on. Mannino: «Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l’intendimento dell’On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che d’altra parte come detto, nel suo pensiero non lo avrebbero comunque “salvato”), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info investigativa potesse si acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di cosa nostra”, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla polizia di stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato».
L’esame delle fonti compulsate porterebbe quindi, sempre a parere del primo giudice, alla conclusione che il ministro Mannino, consapevole che Cosa nostra volesse fargli pagare di non essersi adoperato per assicurare il buon esito del maxi processo (poco importa se per non averlo voluto fare o per non esserne stato capace), fece molto di più che non limitarsi a investire i carabinieri della problematica relativa alla sua sicurezza, messa repentaglio dalle minacce mafiose. Egli tracciò per così dire ai carabinieri l’unica possibile exit strategy.
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