La condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; la sua ipotesi investigativa, in sintonia con il clima dell’epoca, appariva “giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine”, e “avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Dall’esame degli atti processuali sull’omicidio Impastato e sulle relative indagini emerge che vi fu, nella fase iniziale di dette indagini, una chiusura pregiudiziale a far luogo ad accertamenti e acquisizioni, sia documentali che testimoniali, che potessero avvalorare una pista alternativa a quella dell’eclatante gesto suicida o della morte accidentale del presunto attentatore.
Ma è pure vero che il compendio probatorio, integrato e arricchito da quelle risultanze che la fretta di chiudere le indagini dirette dall’allora Maggiore Subranni aveva precluso, consentì al giudice istruttore dell’epoca di affermare che si era trattato di un delitto e di accreditarne con ragionevole certezza la matrice mafiosa.
Ma non fu possibile andare oltre l’archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del delitto, anche se, nel chiosare tale conclusione, lo stesso g.i non mancò di imputare anche “agli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria del pm viene definito l’iniziale “depistaggio delle indagini”, oltre che alla sopravvenuta uccisione di Finazzo Giuseppe, le cause che avevano impedito di tradurre in ben definite responsabilità individuali le verità che emergono dalle carte processuali.
Nella stessa sentenza del g.i dott. Caponnetto si dà atto che il Subranni (nel frattempo promosso al grado di Colonnello), già estensore dei due rapporti in data 10 e 30 maggio 1978 nei quali esprimeva la ferma convinzione che l'Impastato Giuseppe si fosse “suicidato compiendo scientemente un atto terroristico”, ammetteva sostanzialmente di esseri sbagliato.
In particolare, nella deposizione resa il 25.12.1980, egli precisava di avere appreso, dai suoi contatti con l’A.g., che dalle ulteriori indagini erano scaturiti “elementi tali da far ritener plausibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”. E nella successiva deposizione resa il 16.07.1982, lo stesso colonnello Subranni “in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava: «Nella prima fase delle indagini si ebbe il sospetto che l'Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti però vennero meno quando in sede di indagini preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio dell'Impastato che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che l'Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalementi, che l'Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia, In ordine a questa ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo, ritenuto mafioso e legato al Badalamenti».
Sempre nella sentenza Caponnetto viene richiamato il rapporto giudiziario del 10 febbraio 1982 a firma del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Partinico che attesta quanto fossero mutati gli orientamenti e le convinzioni degli inquirenti — e dei carabinieri in particolare — in ordine alle circostanze, alle cause e alle modalità del tragico avvenimento verificatosi la notte del 9 maggio 1978. lvi si parla infatti del Finazzo Giuseppe come affiliato al clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano Badalamenti, e lo si indica come indiziato di vari delitti il più grave dei quali risaliva al 9/05/78, ed era “la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria, di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarlo, il Finazzo Giuseppe, il Badalementi Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.
In realtà, sulla causale del delitto e quindi sulla sua stessa matrice mafiosa, persistevano differenze di valutazioni e di convinzioni in seno all’Arma, che trascendevano e prescindevano dalle iniziali e improvvide prese di posizioni, presto ritrattate, del Subranni.
Convinzioni che riflettevano radicati pregiudizi politico-ideologici, quando non addirittura meschine antipatie personali, assai più che non sordidi interessi collusivi con la criminalità mafiosa (fatta salva la possibilità di strategiche convergenze, sempre da dimostrare, nel comune interesse e nell’atavico obbiettivo di arginare il pericolo rosso, cioè l’avanzata dei comunisti o comunque della sinistra nella paventata marcia verso la conquista del potere in Italia).
La sconcertante nota del capitano Honorati
Ne costituisce riprova la sconcertante Nota del 20 giugno 1984 a firma del nuovo comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo, Maggiore Tito Baldo Honarati (citato anche che nel decreto di archiviazione del procedimento a carico del Subranni per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione all’omicidio Impastato).
Questi, infatti, nel rispondere alle richieste dei comandi superiori che sollecitavano, anche a seguito delle polemiche seguite all’intervenuta archiviazione, ulteriori indagini per fare luce sul caso Impastato, ribadiva come le indagini — definite molto articolate e complesse — condotte dal nucleo operativo al suo comando — hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nel predisporre un attentato di natura terroristica; e tale esito non lasciava prevedere né giustificava allo stato ulteriori possibilità investigative.
Nella Nota si sottolineava che «L‘ipotesi di omicidio attribuito all‘organizzazione mafiosa facente capo al boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici, a sua volta, è solo opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica».
Che si arrivasse a dire tanto del dr. Chinnici, a meno di un anno dalla sua tragica morte in occasione della strage mafiosa di via Pipitone Federico, lascia ancora oggi basiti. Ma quel che interessa qui segnalar è che, nel merito, l’estensore delta nota si sforzava di motivare il rilancio della tesi della morte dell'Impastato nel compimento di un attentato per finalità terroristiche, richiamando gli elementi a suo tempo forniti dal medesimo nucleo operativo, ed evidenziando le ragioni che facevano (a lui) ritenere assai fragile la pista alternativa dell’omicidio di mafia: «si vuol fare
osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche specificatamente questioni di mafia, come una cosca potente, e all'epoca dominante, come quella facente capo al Badalemnti, non sarebbe mai ricorsa per l'eliminazione di un elemento fastidioso ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell'Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni».
Erano passati sei anni dal delitto e quasi quattro anni da quando per la prima volta l’allora maggiore (rectius, colonnello) Subranni aveva ritrattato il suo iniziale convincimento.
[…] Ed allora, sul punto può concludersi che la condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; ma non può inferirsene che essa sia stata frutto di un deliberato proposito di favoreggiamento nei riguardi della locale cosca mafiosa e non l’espressione, piuttosto, del pervicace attaccamento all’ipotesi investigativa più in sintonia con il clima dell’epoca (oltre che con orientamenti ideologici verosimilmente a quel tempo ancora molto radicati nell’Arma): un’ipotesi investigativa che appariva peraltro giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine, e che avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra.
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