Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Il ridimensionamento del ruolo riconosciuto a Calogero Mannino nella vicenda che ci occupa, ma ancora di più la sottovalutazione dell’importanza che, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti degli ex ufficiali del Ros odierni imputati, riveste l’accertamento delle reali finalità che li spinsero ad intraprendere i contatti con Vito Ciancimino poi sfociati in una doppia trattativa (avuto riguardo al diverso tenore delle proposte che gli avrebbero rivolto nelle due diverse fasi in cui si articolarono tali contatti) ha indotto il giudice di prime cure a minimizzare il tema dell’indagine mafia/appalti, che era stato invece aspramente dibattuto per tutto il corso del giudizio di primo grado.

La sentenza qui appellata esprime quasi rammarico per l’eccessivo spazio dedicato dall’istruzione dibattimentale, soprattutto su sollecitazione della difesa, ad approfondire un tema che poco o nulla avrebbe a che vedere con l’oggetto specifico di questo processo, se non fosse per l’esile filo — cosi testualmente si scrive in sentenza — costituito dalla ulteriore prova dell’esistenza di rapporti privilegiati tra alcuni esponenti politici, e segnatamente Calogero Mannino, e alti ufficiali dell’Arma, tra i quali il generale Subranni.

Ma non era necessario, a parere del primo giudice, scavare tanto su questo particolare capitolo della storia delle indagini che s’inscrivono nel filone mafia e appalti — che oltretutto riguarderebbe vicende risalenti a diversi anni prima dell’epoca in cui si collocano i fatti di causa – per dimostrare, l’accusa, e confinare, la Difesa, la tesi che esistessero rapporti non commendevoli di sudditanza o compiacenza di alcuni alti ufficiali dell’Arma e ambienti della politica o singoli esponenti politici. La prova conclamata ditali rapporti può infatti desumersi, sempre a parere del primo giudice, da

ben altre fonti. Argomenti entrambi infelici, in realtà.

“Mafia e appalti”

L’indagine “mafia e appalti” che era stata curata dai carabinieri del Ros intrecciando varie investigazioni da tempo in corso su eventi delittuosi connessi alla gestione illecita degli appalti in alcune cittadini dell’entroterra palermitana e si era poi allargato all’intero territorio siciliano, aveva trovato un primo bilancio nella corposa informativa depositata presso la procura della Repubblica di Palermo in data 20 febbraio 1991 (essendo stata consegnata dal suo estensore, il capitano De Donno, a mani del procuratore aggiunto Giovanni Falcone).

Ma quell’indagine avrebbe registrato un salto di qualità proprio sul finire dell’estate del ‘92, con il deposito in data 5 settembre di una seconda altrettanto corposa informativa che conteneva significativi indizi del possibile coinvolgimento di esponenti politici di rilievo anche nazionale, tra i quali l’on. Salvo Lima (che però nel frattempo era stato ucciso), il ministro Mannino, il presidente della Regione siciliana Rino Nicolosi, portando così alla luce un versante dell’indagine fino ad allora rimasto sottotraccia, e cioè quello delle compromissioni e collusioni di pezzi importanti del mondo politico con il sistema di spartizione degli appalti e relative tangenti, in cogestione con le cosche mafiose.

E se è vero che i fatti monitorati in quelle informative erano piuttosto datati, al pari delle intercettazioni che li documentavano, non è men vero che alcune di quelle intercettazioni lambivano o investivano la posizione di Calogero Mannino. Donde la polemica e i sospetti sulle ragioni per cui non si fosse approfondito per tempo quel versante dell’indagine.

Inoltre, ad ottobre dello stesso anno, e quindi in coincidenza con lo sviluppo della trattativa intrapresa dagli stessi carabinieri del Ros con Vito Ciancimino, veniva depositata un’ulteriore informativa, questa volta alla procura della Repubblica di Catania, cui facevano seguito la trasmissione degli atti per competenza alla procura di Palermo e l’esplosione di nuove polemiche con reciproci scambi di accuse (di insabbiamento o depistaggio) tra alcuni ufficiali del Ros e segnatamente il capitano De Donno e alcuni magistrati della procura di Palermo, già titolari dell’indagine mafia e appalti, nonché tra la stessa Procura e l’omologo ufficio requirente di Catania.

Tutte circostanze, quelle appena ricordate, che, secondo le loro difese, spiegherebbero le remore di Mori e De Donno a informare la procura di Palermo della trattativa instaurata con Ciancimino, soprattutto dopo che era venuto a mancare all’interno di quell’ufficio giudiziario un sicuro punto di riferimento come Paolo Borsellino.

I buoni rapporti tra Mannino e il Ros

Quanto all’esistenza di un asse di rapporti privilegiati tra Mannino e i vertici del Ros, è a dir poco azzardato ritenere che da altre fonti potesse desumersi un rapporto di compiacenza o di sudditanza tale da potere giustificare o anche solo rendere plausibile che ne potesse sortire addirittura un disegno concertato di svendere la linea della fermezza dello Stato per salvare la vita a un politico influente, disonorando, gli ufficiali predetti, la divisa che indossavano. A meno di non voler ritenere:

  • che le delazioni del Corvo 2 avessero un minimo fondamento, invece che essere — come convennero da subito e con pubbliche esternazioni praticamente tutti i vertici degli apparati investigativi dell’epoca, Sco della polizia di stato incluso - il frutto di un tentativo di sollevare un polverone utile solo a gettare discredito sulle istituzioni e creare imbarazzo con una non peregrina commistione di elementi di verità e invenzioni calunniose ad una serie nutrita di note personalità del mondo della politica, dell’imprenditoria siciliana e della stessa magistratura;
  • che sia da elevare a sospetto il fatto stesso che Subranni abbia incontrato Mannino per parlare con lui, unitamente al Contrada, delle accuse lanciate nei suoi confronti dall’autore o dagli autori di quell’esposto anonimo. Al riguardo, può giudicarsi censurabile o disdicevole che Subranni non abbia avuto alcuna remora a incontrarlo, posto che il suo reparto era stato delegato dall’A.g. a svolgere accertamenti preliminari in merito al contenuto dell’esposto (si può sostenere infatti che evidenti ragioni di opportunità avrebbero dovuto prevalere sul galateo istituzionale, e indurlo a declinare l’invito a parlare riservatamente di certi argomenti). Ma va pure rammentato che il relativo procedimento venne incardinato, prima, a carico di ignoti e poi di noti per il reato di calunnia. Ed è certo che Mannino non fu l’unico politico siciliano, ma di rilievo nazionale, ad essere stato preso di mira nell’esposto anonimo predetto con accuse tanto infamanti quanto destituite di qualsiasi fondamento; come non fu l’unico politico che, pur essendo potenzialmente inquisito, si sia incontrato a sua volta con Bruno Contrada o con altri esponenti di vertice degli apparati investigati o di intelligence dell’epoca. D’altra parte, il Generale Tavormina, già nel corso delta deposizione resa all’udienza del 19.07.2000 nel processo a carico di Calogero Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa aveva dichiarato in un primo momento di non potere escludere e poi di essere certo di avere parlato direttamente con lo stesso Mannino del contenuto dell’anonimo “Corvo2”, sebbene non avesse titolo a svolgere accertamenti al riguardo perché la Dia non aveva ricevuto alcuna delega d’indagine; circostanze confermate anche nella deposizione resa al dibattimento di primo grado di questo processo;
  • che la sollecitudine di Subranni nel farsi carico delle preoccupazioni di Mannino per la propria incolumità avessero un timbro diverso e sottintendesse una disponibilità ben diverse dalla sollecitudine che anche altri soggetti con cariche apicali degli apparati investigativi e di intelligence — e non ci si riferisce solo a Bruno Contrada, ma anche al citato generale Tavormina - ebbero nei confronti di una personalità che era pur sempre un noto protagonista della vita politica siciliana e nazionale, e, all’epoca dei fatti, ministro in carica;
  • che, dandosi per dimostrata la sensibilità e, ancora una volta, la sollecitudine del Subranni, ma anche del generale Tavormina, a dare una mano al ministro affinché si facesse chiarezza nel più breve tempo possibile sulle propalazioni accusatorie del pentito Spatola Rosario, ne fosse sortita, con la complicità del povero maresciallo Guazzelli, una “manipolazione” delle indagini scaturite da quelle rivelazioni e quindi una loro rapida conclusione, mentre ben altro esito avrebbero potuto avere se non vi fosse stato l’intervento inquinante dello stesso Guazzelli. Ma a quest’ultimo riguardo, è appena il caso di ricordare che lo stesso Spatola ritrattò le sue accuse con una lettera di scuse indirizzata all’On. Mannino; e che l’indagine a carico di quest’ultimo si chiuse in effetti in tempi rapidi, con un decreto di archiviazione congruamente motivato, ed emesso dal gip del Tribunale di Sciacca in data 11 ottobre 1991 su conforme richiesta avanzata dal Procuratore della Repubblica Messana, dopo che gli atti erano stati trasmessi per competenza dalla procura di Marsala; e che nessun riscontro probante alle accuse dello Spatola — che indicava il Mannino come uomo d’onore e organico alle cosche agrigentine, ma poi ammetteva di non poter riferire nulla, né per conoscenza diretta, né per notizie apprese da altri, circa eventuali condotte del Mannino in favore della consorteria mafiosa – era emerso dalle indagini; e che queste ultime erano state espletate non dai carabinieri del Ros bensì, per alcuni accertamenti specifici, dal N.o carabinieri di Agrigento, ma per la gran parte dalla Squadra Mobile di Trapani e poi dal Commissariato p.s di Sciacca. E ciò in evasione, rispettivamente, ad una corposissima delega d’indagine che era stata conferita, prima di trasmettere gli atti per competenza alla Procura di Sciacca, dal procuratore di Marsala Paolo Borsellino, e ad una successiva delega d’indagine dello stesso Procuratore di Sciacca. Anche se quest’ultimo, sia pure solo a conclusione delle indagini predette, aveva altresì richiesto ai carabinieri del Ros ulteriori informazioni sul conto dell’On. Calogero Mannino in ordine ad una sua eventuale appartenenza o vicinanza a gruppi di criminalità organizzata, ricevendone una risposta seccamente negativa.

Vi fu dunque un coinvolgimento informale, dei carabinieri del Ros, ed una sollecita e netta presa di posizione in favore del politico inquisito che sembrerebbero comprovare l’esistenza di buoni rapporti all’epoca intercorrenti tra il politico siciliano e il Ros comandato dal generale Subranni. Questi, peraltro, a dire del generale Tavormina, aveva conosciuto personalmente proprio quell’anno, e quindi pochi mesi prima, il ministro Mannino. Ma L’intervento del Ros sarebbe stato comunque del tutto marginale e giunto a indagini praticamente concluse. Altro è inferire che vi sia stato un intervento decisivo di inquinamento delle carte in favore del ministro inquisito. […].

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