- Nuove testimonianze affermano che le autorità ecclesiastiche in Slovenia e in Italia erano a conoscenza dei comportamenti del gesuita Marko Rupnik, accusato di abusi da diverse suore
- «La maggior parte dei vescovi in Slovenia sapeva tutto», denuncia il prete sloveno Janez Cerar, «molti di loro sono figli spirituali di Rupnik»
- «Rupnik e la sua cerchia in Slovenia sono potentissimi e hanno un’influenza determinante anche nella diocesi di Roma», afferma anche un altro sacerdote sloveno
Questa inchiesta a puntate, “La violenza nella chiesa italiana”, è realizzata grazie al sostegno dei lettori di Domani. Scopri anche tu come contribuire: squarciamo insieme il muro di omertà della chiesa sugli abusi di tutti questi anni.
Che ne è stato di padre Marko Rupnik? Complici le polemiche seguite alla morte di Ratzinger e le voci sulle possibili dimissioni di Bergoglio, la vicenda che riguarda il famoso teologo e artista al centro di uno scandalo per abusi è scomparsa dai radar, senza che siano stati risolti i tanti interrogativi che si porta dietro, dalle responsabilità di chiesa e gesuiti fino al ruolo giocato dal papa. Nuove testimonianze, però, indicano che l’atteggiamento predatorio di Rupnik non si è limitato alla Comunità Loyola, da cui sono emerse le accuse, ma ha caratterizzato anche altri periodi della sua vita; e, soprattutto, confermano che diverse autorità ecclesiastiche in Slovenia e in Italia erano da tempo a conoscenza del suo comportamento.
«Negli anni Ottanta, Marko Rupnik aveva nel suo studio a Gorizia un grande quadro di Gesù crocifisso pieno di sangue. A Rupnik piaceva il sangue – quanto gli piaceva, il sangue – e in questo quadro aveva ritratto un Gesù insanguinato che baciava sulla bocca la Maddalena. Colpito, commentai che mi pareva molto sensuale. Lui, infastidito, ribattè che non capivo niente della sua arte». Così un frequentatore del centro dei gesuiti “Stella Matutina” descrive Marko Rupnik, all’epoca in cui il gesuita guidava a Gorizia un progetto che mirava a unire i due popoli, italiano e sloveno, in un luogo ecumenico e internazionale.
Rupnik, poco più che trentenne, predicava l’amore di Dio che si manifesta nel corpo e trasforma ogni cosa, e intanto faceva osservazioni su come si vestono le ragazze e le abbracciava durante i colloqui spirituali, con la scusa che questa modalità «agevolava l’incontro». Lo stesso succedeva pochi anni prima a Lubiana, dove Rupnik aveva dato vita al Kres, un cenacolo di persone impegnate nel cambiamento politico e culturale di quegli anni segnati dalla fine del comunismo. Anche qui, come a Gorizia, qualche coppia era scoppiata dopo l’incontro con il fervente gesuita e ora, ricordando gli anni del Kres, sono in molti a riportare alla memoria anche le molestie, le pressioni, l’uso distorto che il giovane leader faceva del suo carisma.
Chiesa divisa
La chiesa in Slovenia, già sofferente per problemi finanziari che nel 2022 hanno portato a una visita apostolica, si è spaccata sul caso Rupnik. I vertici della Compagnia di Gesù, così come i vescovi, hanno affermato di voler andare a fondo della questione e di essere disposti a collaborare con le istituzioni per garantire giustizia e verità alle vittime.
«Siamo rimasti profondamente scioccati dalle testimonianze delle suore che hanno accusato don Rupnik di varie forme di violenza e abuso. Crediamo nella sincerità delle suore e delle altre vittime che hanno raccontato le loro sofferenze», scrivono i gesuiti sloveni in una nota diffusa lo scorso 6 gennaio. «Le loro confessioni dimostrano al di là di ogni dubbio che i leader ecclesiastici competenti non hanno preso provvedimenti adeguati». Un mea culpa corredato di buone intenzioni, di cui però non si intravede l’esito.
Se ci si rivolge al Dravlje, la sede dei gesuiti di Lubiana, ci si scontra infatti con la consegna del silenzio: nessuno ha il permesso di rilasciare dichiarazioni e si è subito rimbalzati al provinciale della Compagnia, padre Miran Žvanut che, però, non risponde. Così come non rispondono, interpellati da Domani, l’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, il vescovo ausiliare Franc Šuštar e il presidente dei vescovi sloveni Andrej Saje.
“Vizio” conosciuto
Eppure oggi, a Lubiana come a Roma, in tanti ammettono a mezza voce che il vizio di Rupnik per le donne era risaputo da tempo. «Già dieci anni fa un membro della Compagnia mi raccontò degli abusi di Rupnik», racconta padre Anton (nome di fantasia), un gesuita sloveno che preferisce restare anonimo. Quasi nessuno parla, quindi, ma tutti sapevano; e chi non sapeva, non si stupisce. Come mai, allora, non uno, in tutti questi anni, ha provato a limitare i movimenti di Rupnik, in modo da prevenire altri possibili abusi?
«La conferenza episcopale ha dichiarato di essere venuta a conoscenza dei fatti dalla stampa ma la maggior parte dei vescovi in Slovenia sapeva tutto», denuncia don Janez Cerar, «molti di loro sono figli spirituali di Rupnik, nutriti dalla sua teologia e cresciuti al Centro Aletti, di cui il gesuita è stato direttore fino al 2020: la sua influenza nella chiesa slovena è molto forte». Don Cerar è stato abusato quando era in seminario dal suo rettore, monsignor Jože Planinšek: nel 2019 l’ha denunciato alla giustizia civile ed ecclesiastica ed ha fondato “Dovolj je” (Basta), un’associazione che si occupa delle vittime clericali nella chiesa. Don Cerar è l’unico che non teme di dire apertamente quel che pensa perché la chiesa, che lo ha già punito rimuovendolo dalla sua diocesi per aver osato denunciare la violenza clericale, ora lo ignora.
«Purtroppo ho esperienza di predatori e Rupnik ha il modus operandi dei predatori sessuali», dice don Cerar. «Rupnik non ha mai sostenuto il mio impegno a favore delle vittime», aggiunge, «anzi, quando ha saputo che volevo denunciare l’omertà della chiesa sui preti abusanti, ha commentato che mi credevo il messia».
Janez Cerar e le altre quattro vittime (di cui due all’epoca minorenni) di monsignor Planinšek (reo confesso) non hanno avuto giustizia: il reato è ormai prescritto in sede penale e per la giustizia ecclesiastica è sufficiente che l’ex rettore tenga una messa privata al mese in favore delle vittime e si astenga per tre anni da contatti volontari con minori.
«Quando sono andato in Vaticano per sapere l’esito del mio caso, il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica José Rodríguez Carballo mi ha detto che i documenti, che io avevo consegnato a mano, non erano nemmeno in archivio», testimonia il sacerdote. Una storia che, ancora una volta, non depone a favore della trasparenza delle indagini ecclesiastiche.
«Per quanto riguarda padre Rupnik, le dichiarazioni della conferenza dei vescovi slovena sono soltanto chiacchiere», rincara padre Anton, «anche il provinciale dei gesuiti dell’epoca, Lojze Bratina, sapeva. L’attuale provinciale, Miran Žvanut, vorrebbe che si riaprisse il processo ecclesiastico per gli abusi nei confronti delle suore della Comunità Loyola, ma incontra resistenze: l’intoppo è nella curia romana».
Circostanza confermata anche da un altro sacerdote sloveno, che sul caso di Rupnik ha indirizzato alle autorità ecclesiastiche delle lettere di protesta firmandosi Karel Fulgoferski. «Žvanut è andato fino a Roma per invitare Rupnik a fare chiarezza», dice a Domani, «ma questi lo ha minacciato di ritorsioni. Rupnik e la sua cerchia in Slovenia sono potentissimi e hanno un’influenza determinante anche nella diocesi di Roma».
Gli intoppi romani
Di quale “intoppo” parla padre Anton, e fino a dove arriva l’influenza di Rupnik e dei suoi? Il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, fedele sostenitore dell’artista, dopo averlo difeso in consiglio episcopale, poco prima di Natale è stato costretto a diffondere una nota, in cui da un lato esprime «sgomento per le pesanti accuse» e dall’altro prudenza nel «trasformare una denuncia in reato». Un gioco di bilancino in cui però De Donatis comincia a smarcarsi, sottolineando che il sacerdote in questione ha collaborato sì «a più livelli» con la diocesi, ma non dipende in alcun modo dal cardinale vicario, che quindi non è responsabile dei suoi guai.
Papa Francesco deve averla pensata un po’ diversamente, visto che a inizio anno ha provveduto a pubblicare In ecclesiarum communione, una nuova costituzione apostolica sull’ordinamento del vicariato di Roma che entrerà in vigore il 31 gennaio, in cui il ruolo del cardinale vicario è di fatto ridimensionato dalla figura del vicegerente, che coordina tra le altre cose l’amministrazione interna della curia diocesana. A questo incarico è stato chiamato monsignor Baldassarre Reina, della diocesi di Agrigento, e tutta l’operazione suona come un commissariamento di fatto di De Donatis.
Interventi riorganizzativi a parte, , Francesco in una recente intervista ad Ap, ha dichiarato di non essere stato lui a cancellare la scomunica latae sentantiae, in cui il gesuita era incorso per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale. Ma se non è stato il papa, chi è stato, visto che solo la Santa sede poteva intervenire? Sul fronte dei gesuiti, stessa musica: nessun commento da parte di padre Johan Verschueren, consigliere generale e delegato per le Case e le Opere Interprovinciali a Roma che, interpellato da Domani, si limita a rinviare a febbraio una dichiarazione sul futuro di Rupnik.
Silenzio anche dal Centro Aletti, in cui Rupnik è stato visto celebrare messa il giorno del funerale di Benedetto XVI: un silenzio generale che nasconde imbarazzi e questioni irrisolte. Ma dal silenzio all’oblio il passo è breve, e in Vaticano lo sanno benissimo.
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