Il passo di chi va al patibolo, il capo chino, l’espressione contrita del volto, le mani che chiedono scusa: scene da una figuraccia, da una sconfitta, a volte anche solo da un pareggio (la Juventus contro il Venezia, nemmeno troppo tempo fa), scene di una manciata di ragazzi nel fiore degli anni che, quando un risultato non arriva, si avvicinano a una curva dello stadio convinti – chissà poi perché, se il loro hanno provato a farlo – di dover chiedere perdono, accettando di farsi insultare, minacciare e umiliare da chi dovrebbe tifarli, e che magari sino a qualche momento prima lo ha anche fatto, ma poi fa esplodere la propria rabbia attraverso un rituale tribale come pochi altri, appunto la gogna riservata ai beniamini che hanno sbagliato, fallito, tradito.

Non c’è scontro fisico, ma la tensione verbale è elevatissima, almeno quanto la temperatura dell’ira: è un rituale al quale non si sottrae nessuno, per una singolare forma di deferenza nei confronti di chi, in quel momento, punta principalmente a ciò che gli psicologi e i sociologi del tifo definiscono «supremazia riconosciuta», la stessa che storicamente i vari gruppi ultrà ricercavano (e tuttora ricercano) rispetto alle altre tifoserie, ma che ormai da alcuni anni in Italia – perché il fenomeno è principalmente italiano – cerca la legittimazione da parte dei giocatori, degli idoli stessi, affinché essi per primi riconoscano nei capi delle curve dei riferimenti fondamentali della comunità.

In oltre quarant’anni di studi sulla psicologia e sulle dinamiche del tifo, dalla Tribù del calcio di Desmond Morris a Sport Riots di Gordon W. Russell, passando per la Descrizione di una battaglia di Alessandro Dal Lago, testo che ha oltre trent’anni e resta un punto di riferimento, i rituali tribali, dalla violenza sublimata e degli scontri reali hanno sempre avuto, come contraltare e termine di confronto di questa tendenza alla supremazia riconosciuta, le tifoserie avversarie, ma il caso italiano integra la fattispecie del fuoco amico.

In maniera piuttosto significativa, inoltre, non sfugge come certi valori, onore e ossequio nei confronti dei capi, richiamino quelli tipici della criminalità organizzata, che non a caso, è stato dimostrato recentemente, ha irrimediabilmente infiltrato alcune curve (nel silenzio passivo dei club) e gli affari dei gruppi che al loro interno trovano cittadinanza.

La genesi

Tutto ha origine, almeno nella memoria, in un Genoa-Siena dell’aprile 2012. Rossoblù sotto di quattro gol pochi minuti dopo l’inizio del secondo tempo (la partita sarebbe terminata 1-4) ed ecco la contestazione: 45 minuti di sospensione, certo, ma soprattutto ecco la prima esibizione muscolare di un gruppo che richiama i calciatori e li costringe a levarsi le maglie.

Ne sarebbero seguite altre di situazioni del genere, in quasi tutti gli stadi, in casa o in trasferta: una flagellazione rituale incruenta seppur violenta nei toni, dove peraltro incappa anche chi in campo è entrato solo negli ultimi minuti e nemmeno avrebbe motivo, anche volendo, di dover confessare chissà quale oscenità commessa. Ma tant’è: se ne occupò anche l’Uefa, quando furono i giocatori della Roma a doversi giustificare al cospetto di una curva furente dopo una sconfitta casalinga in Europa League contro la Fiorentina.

Era il marzo 2015, e, da Totti a De Rossi, nelle settimane successive, in tanti vennero chiamati dalla Digos per raccontare ciò che era accaduto, e dalle deposizioni si evinse un «condizionamento psicologico dei calciatori, in esito a ripetuti tentativi di intimidazione».

La figuraccia fu internazionale, intervenne anche il Viminale, e l’Uefa, che aveva aperto un’inchiesta, la chiuse pilatescamente, lasciando che a questi episodi pensasse la Figc.

Il regolamento

E così, ormai da tempo, la gogna è vietata anche dal Codice di giustizia sportiva federale, che all’articolo 12 comma 8 sancisce il divieto per i tesserati «di avere interlocuzioni con i sostenitori durante le gare e/o di sottostare a manifestazioni e comportamenti degli stessi che, in situazioni collegate allo svolgimento della loro attività, costituiscano forme di intimidazione, determinino offesa, denigrazione, insulto per la persona o comunque violino la dignità umana».

Un articolo chiarissimo nella sua semplicità e che viene spesso disatteso: in quasi dieci anni i tesserati sanzionati sono pochissimi, e tutti periferici. Nel 2023, dopo un patteggiamento, vennero squalificati per una partita il capitano del Piacenza, Alessandro Cesarini e inibiti per due settimane un dirigente e il presidente del club, per avere «acconsentito e, comunque non impedito» che tutti i componenti della squadra in campo, «obbedendo a quanto comandato dai propri sostenitori, si avvicinassero alla recinzione (...) al fine di iniziare con gli stessi un’interlocuzione di circa 5 minuti nel corso della quale l’intera squadra si sottometteva a ripetute manifestazioni intimidatorie».

Accadeva a Sesto San Giovanni, in C. Lo abbiamo visto accadere anche in A e in B, più volte, un po’ dovunque. Ma chi di dovere si è sempre voltato dall’altra parte.

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