Le terapie intensive sono l'ultima linea di difesa contro il Covid-19. È qui che i malati con i polmoni ormai compromessi vengono sottoposti a ventilazione meccanica, una procedura complicata che richiede non solo apparecchiature particolari, ma anche personale specializzato e sorveglianza costante. Maurizio Cecconi, presidente eletto dell’Esimc, l’associazione degli intensivisti europei, e responsabile delle terapie intensive all’ospedale Humanitas di Milano, spiega cosa è stato fatto per migliorare questa risorsa fondamentale nella lotta contro il coronavirus.

Come si è preparata l’Europa alla seconda ondata dal punto di vista di voi intensivisti?

La necessità che è emersa ovunque è stata quella di ampliare il numero posti letto per evitare le situazioni di confusione che si erano generate nella prima ondata, non solo in Italia. Ma bisogna fare attenzione: un semplice ventilatore non è un letto di terapia intensiva. Serve un insieme di persone con le competenze necessarie per far funzionare un’unità complessa e tenere sotto sorveglianza costante il paziente. È impensabile formare questi specialisti in tre mesi, cioè nel periodo tra le due ondate. Ed è altrettanto impossibile pensare di assumerli: appena uno specializzando termina gli studi trova immediatamente il lavoro. Il gap tra necessità di intensivisti e personale disponibile c’era anche prima.

Quindi, come si può ampliare la capacità di terapie intensive in poco tempo?

L’unica maniera è convertire risorse esistenti. Quello che abbiamo cercato di far comprendere come Esimc è stato che, non potendo formare specialisti in pochi mesi, si possono però fornire competenze minime a infermieri e medici che fanno altro e utilizzarli come “aiuto” per gli intensivisti. È un’idea che promuoviamo come “esercito della salute”, un pool di persone formate pronte a intervenire se la situazione si fa critica. Per aiutare le strutture che non riescono a formare il loro personale da sole abbiamo anche creato un corso online multimediale di 24 ore, distribuito con l’aiuto della Commissione europea a tutti gli stati membri che possono così avere un aiuto per formare il proprio piccolo esercito della salute.

Alcuni paesi però sembrano non averne bisogno perché hanno già una dotazione di terapie intensive molto superiore a quella degli altri, come mai?

Parliamo della Germania, ma i suoi circa 25 posti letto di terapia intensiva ogni 100mila sono un dato da prendere con le pinze. La definizione di cos’è un letto di terapia è leggermente differente in ogni stato. È vero che la Germania parte con un numero di posti letto più alto del nostro, ma non è l’unico fattore da tenere in considerazione. I dati sulla mortalità dei pazienti ventilati meccanicamente, che in Germania sono più bassi dei nostri, sono influenzati anche da altri fattori, ad esempio dalla gravità dei pazienti che arrivano in terapia intensiva. La Germania non è solo più brava perché ha più terapie intensive, ma perché ha una migliore sanità territoriale.

Come può la sanità del territorio aiutare voi intensivisti?

Paradossalmente essendo sotto i riflettori si è parlato molto di noi, ma ci siamo spesso dimenticati che noi siamo appunto l’ultima linea di difesa, non la prima. Usciremo da questa grande sfida con le misure di salute pubblica, con il controllo, il tracciamento e il contenimento che permettono di evitare che le persone arrivino in terapia intensiva. Da noi questo sistema ha fallito ovunque, in alcuni paesi, come la Germania, più tardi che in altri. Ma alla fine il numero di positivi sul totale dei tamponi effettuati è aumentato oltre i limiti in tutti i paesi europei. Dobbiamo imparare dagli stati asiatici, che hanno fatto scelte coraggiose in fatto di chiusure rapide.

 

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