Il 2024 sarà l’anno del processo per la morte di Diego Armando Maradona. Una dipartenza lenta e solitaria, cominciata nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2020 in un country della zona di Tigre, a nord di Buenos Aires, dove vip e nuovi ricchi si ritirano a vivere in pace, possibilmente lontano dai poveri.

Sotto accusa, l’équipe pseudo-medica ritenuta «deficiente, temeraria e indifferente» di fronte al deterioro psicofisico di Diego, relegato come un bambino in una playroom al piano terra, con il cartongesso alle finestre.

Addosso, i pantaloncini del Gimnasia di La Plata, il suo ultimo club, e una maglietta marca Puma, nera come gli scarpini Puma che siamo soliti associare alla sua sagoma di numero 10. Al polso, il braccialetto di spago rosso tanto di moda in quest’Argentina new age, un talismano contro invidia e malavibra, da legare sempre a sinistra, dicono, perché è dal lato sinistro, quello più vicino al cuore, che assorbiamo le energie esterne.

Oggi Diego riposa nel placido camposanto privato di Bella Vista, un perimetro proibito a chiunque non abbia un familiare sepolto lì. Un divieto d’accesso sospeso in rari casi, come la visita di Corrado Ferlaino dello scorso giugno, e aggirato in una sola unica occasione, si racconta, quando sotto la pioggia, forse avvolta in uno spolverino alla Marlowe, un’italica primula rossa in incognito dribblava controlli e vigilantes per lasciare un fiore sulla lapide bianca dove Diego aveva voluto l’epitaffio Gracias a la pelota.

La notte prima, da quell’addome rigido e gonfio veniva estratto un cuore grosso e pesante, di dimensioni doppie rispetto alla norma, da allora custodito sotto formalina presso il Dipartimento di Anatomia Patologica della Polizia Scientifica di La Plata. La città della scienza, della medicina e dei lumi argentini.

La squadra, il compasso, il pallone

La Plata è una città che, ad arrivarci, si respira subito una certa calma. I suoi viali alberati, i marciapiedi a misura d’uomo e le piazze verdi e intermittenti invitano al passeggio, alla promenade. La prima sensazione è che questo invito al camminare non sia casuale, che la città sia stata pensata (anche) per questo.
Ve ne rendete conto quando uscite dalla stazione dei treni, un edificio di inizio Novecento con una cupola turchese dall’aria neoclassica, la stessa dove il Brad Pitt di Sette anni in Tibet cominciava il suo periplo verso la volta celeste dell’Himalaya: a differenza di quanto succede a Buenos Aires, dove il caos degli snodi ferroviari vi obbliga a interrarvi nelle gallerie del subterraneo per poi scappare in metro, alla stazione di La Plata il mondo esterno si rivela in modo meno ostile, quasi più “europeo” verrebbe da dire, e chissà poi perché.

Sebbene gli autoctoni dicano che sia impossibile perdersi, il gioco di strade perpendicolari e diagonali senza nomi, contraddistinte solo da numeri, può risultare fatale al viandante inesperto. Eppure, La Plata rimane una città unica in sud America.

Un progetto premiato all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, un tracciato urbano incredibilmente ricco di simboli riconducibili alla Massoneria, fondamentale rete di contaminazione tra il socialismo romantico europeo e i processi emancipatori latinoamericani dell’Ottocento, nonché principale volano dei precetti mazziniani e repubblicani sul Rio de la Plata.

Un piano topografico quadrangolare, dove le intersezioni tra le diagonali formano le figure del compasso e della squadra, e dove la particolare disposizione delle piazze riproduce la pianta gerarchica dei templi massonici. Nei quali l’Oriente, fonte di Luce e Conoscenza, è occupato dai Maestri.

Nel nostro caso, guardando la mappa, il Gran Oriente di La Plata coincide con il famigerato Bosque: 60 ettari di pioppi, querce, eucalipti e salici, dove troviamo la facoltà di scienze esatte, il museo di scienze naturali, il giardino botanico e l’osservatorio astronomico attorno a cui sorgerà poi la facoltà di astronomia e geofisica, ma anche gli stadi di Estudiantes e Gimnasia, rispettivamente Leone e Lupo del bestiario calcistico rioplatense.
E naturalmente, non sia mai che dubitiate delle meccaniche celesti, il laboratorio dove riposa la più sacra delle reliquie maradoniane.

Cuori rubati

Una settimana dopo l’autopsia effettuata sul corpo di Maradona, la procura di La Plata viene informata di un fantomatico piano della barrabrava del Gimnasia per rubare il cuore di Diego.
Mentre il Bosco si riempie di agenti della Polizia Federale, i media ricostruiscono i casi di profanazione di illustri cadaveri della storia argentina, dalla salma di Evita, scomparsa con il golpe del 1955, alle mani di Juan Domingo Perón, segate e trafugate dal cimitero della Chacarita nel 1987 e mai più ritrovate.

Stavolta lo scoop viene lanciato dal medico e giornalista Nelson Castro, autore dei best seller La salute dei Papi e La salute di Diego, la cui credibilità sarebbe però crollata nel marzo 2022, durante l’invasione russa dell’Ucraina, quando il volenteroso Castro, tratto in inganno da certi fake in cui Vladimir Putin cavalca un orso a petto nudo, avrebbe comicamente rivelato ai propri telespettatori che in verità, l’orso in questione, era ammaestrato.

Giocando con le parole d’amore pronunciate da Maradona il giorno della sua presentazione come DT, «il Gimnasia mi ha rubato il cuore», in occasione del derby casalingo con l’Estudiantes la curva del Gimnasia espone uno striscione con su scritto «Ce l’abbiamo noi il cuore di Diego», accompagnandolo con una caricatura dell’altro idolo del club: il cardiochirurgo René Favaloro, a cui oggi è intitolato l’intero Bosco di La Plata, nato nel quartiere popolare El Mondongo, “la trippa”, storicamente abitato dagli operai dei macelli delle zone di Ensenada e Berisso, che ogni settimana venivano in parte pagati con frattaglie bovine.

Da qui, il termine triperos che tutt’ora indica i tifosi del Gimnasia, teoricamente di estrazione più umile rispetto ai rivali dell’Estudiantes, detti pincharratas, soprannome riferito – si dice – agli studenti di medicina che usavano ratti come cavie.

Considerato uno dei pionieri del bypass coronarico, precoce partitario della depenalizzazione dell’aborto e membro della Conadep, la commissione nazionale sui desaparecidos a cui si deve il dossier Nunca Más, René Favaloro si suicida nel 2000, sparandosi un colpo di pistola al cuore.

Tormentato dai debiti della sua Fondazione e avvilito dalla massiccia corruzione del sistema politico argentino, prima di togliersi la vita sfogherà la sua frustrazione in una serie di lettere che purtroppo non hanno perso la loro attualità.
«Essere onesto, in questa società corrotta, ha il suo prezzo. Prima o poi te la fanno pagare. Sono stanco di lottare. Il chirurgo vive con la morte, è la sua compagna inseparabile. Spero solo che questo atto non venga trasformato in una commedia». Chissà cosa direbbe oggi, René. Chissà cosa avrebbe detto di quel cuore grosso e pesante, nel petto di Diego.

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