I primi gruppi sono nati negli anni Novanta per mettere in discussione il modello culturale patriarcale. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin l’interesse verso queste realtà è cresciuto. Dal sud al nord
Se pensata sulle relazioni, la forma del cono ha un significato molto diverso rispetto al cerchio. La prima è verticale e gerarchica. La seconda è orizzontale e paritaria. È con questa immagine che Domenico Matarozzo spiega nel film del 2023 “Nel cerchio degli uomini” la rappresentazione di maschile imposta e il desiderio di creare uno spazio nuovo, e di abbassare il cono per formare un cerchio. Il film prende il nome dal gruppo di autocoscienza maschile di Torino nato nel 1999 che porta lo stesso nome: Il cerchio degli uomini, appunto.
«Avevamo l’interesse di interrogarci sul maschile e sulla gestione del potere nelle relazioni», spiega a Domani Matarozzo. «Abbiamo provato a disegnare - continua - quali sono le forme di mascolinità tossica che andavano riviste nei rapporti tra uomini, con le donne, con i figli e in famiglia».
Lui fa parte della vecchia guardia, della trentina di persone che alla fine degli anni Novanta ha avviato il cerchio di condivisione. Oggi sono circa una cinquantina gli uomini che gravitano attorno al gruppo di Torino.
Autocoscienza o decostruzione
La pratica politica dell’autocoscienza è stata avviata dai collettivi femministi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, come momento di condivisione delle proprie esperienze personali, di scambio intellettuale ed emotivo, di riflessione politica e presa di coscienza sulle relazioni di potere.
Dagli anni Novanta in Italia anche alcuni gruppi di uomini hanno sentito il bisogno di aprirsi a questa pratica per mettere in dubbio la costruzione sociale assegnata, anche se nominandoli diversamente: «Non abbiamo voluto chiamarli gruppi di autocoscienza per non appropriarci di un termine che è proprio del movimento femminista, ma si tratta di partire dalla propria condizione personale, conoscerne la natura politica e farne un terreno di condivisione con altri», spiega Stefano Ciccone, tra i fondatori della rete Maschile plurale e membro del gruppo di Roma.
Uno spazio in cui non ci si giudica, prosegue Ciccone, ma che non si limita all’autoaiuto o al compiacimento, perché «ci si mette in discussione». Si prova a lavorare su un certo tipo di identità di genere, spiega Mattia Scorzini, 24 anni, anche lui del gruppo di Roma, che non significa aiutarsi «a risolvere i problemi personali».
Ma c’è chi preferisce definirlo «un cerchio di decostruzione», precisa Enrico Francone, 32 anni, che dal 2018 fa parte del Cerchio degli Uomini di Torino: «Autocoscienza significa essere coscienti ma può non portare a nessun cambiamento, mentre la decostruzione porta a ripensarsi».
L’esigenza che porta le persone a creare questi spazi o ad avvicinarsi a gruppi già esistenti è personale ma in comune c’è la volontà di uscire dallo stereotipo maschile. Ed è questo elemento a dare continuità anche ai gruppi storici: «Riconoscere una parzialità maschile, una costruzione sociale da mettere in discussione, contrastare il vittimismo maschile, non porsi in una posizione volontaristica, come amici delle donne, e riconoscere il fatto che esiste un privilegio maschile», racconta Ciccone, sottolineando che questo privilegio produce una miseria nella vita degli uomini.
Questo significa che per molti uomini dover rientrare in un determinato modello non è accettabile: non poter esprimere emozioni, l’imposizione per cui “gli uomini non piangono”, non partecipare al lavoro di cura nella crescita dei figli e nella gestione della casa, non considerarla una responsabilità condivisa, o ancora, dover performare sul piano lavorativo e manifestare in un certo modo la rabbia.
Il Gruppo nonviolento di autocoscienza Maschile di Milano (Gnam) è nato all’inizio degli anni Novanta «per necessità», racconta Roberto Raimondo, tra i fondatori, perché «le donne avevano fatto il loro percorso, quello del femminismo, e gli uomini no. Noi abbiamo cercato di farlo nel nostro piccolo». Riusciamo a esprimere le nostre emozioni? Come agiamo in momenti di crisi? Come possiamo rapportarci in modo davvero paritario con le donne? Queste le domande da cui è partito Gnam, che è sempre stato un gruppo piccolo senza una figura di leader «e questo è fondamentale», aggiunge Raimondo, «perché contraddice lo stereotipo maschile».
In un periodo in cui il berlusconismo aveva oggettificato la figura della donna, «il maschio era considerato vincente», spiega. Negli incontri settimanali o bisettimanali da una decina di persone, i temi portati all’interno del cerchio fin dall’inizio sono quelli della quotidianità, delle relazioni, di come rapportarsi in modo paritario con le donne, della paternità consapevole, di come esprimere le emozioni. O ancora della rabbia, della performatività, della sessualità e della distribuzione del lavoro di cura tra i generi.
I gruppi che Gnam è riuscito a censire nel libro “Maschilità mascherata” sono 17, la maggior parte centro nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana – un gruppo è a Roma e alcuni al sud, in Puglia e Sicilia. Alcuni hanno creato associazioni e svolgono anche attività di formazione, altri invece sono gruppi informali, nati ad esempio all’interno di realtà sociali. Secondo il libro di Gnam in totale i gruppi sono tra i venti e trenta in tutta Italia.
Le nuove generazioni
La differenza di età all’interno di alcuni gruppi è tanta: a Bologna il gruppo va dai 20 ai 70 anni, a Torino dai 28 agli 80 anni circa, a Roma dai 24 ai 70, a Milano tra i 40 e i 60 anni. «Riusciamo a creare dei ponti e a parlare di Tik Tok come del servizio di leva», racconta Michele che fa parte del gruppo di Maschile Plurale di Bologna da 10 anni. Sottolinea però l’importanza delle parole, che devono essere comprensibili per tutti, e tutte le esperienze devono essere tradotte nei vissuti: ad esempio si parla di figli anche con chi non ne ha.
Da gruppi di uomini eterosessuali che facevano un lavoro sulla violenza di genere, queste realtà si sono poi allargate, anche con l’ingresso delle nuove generazioni e di una componente Lgbtq, «che ha permesso di cambiare l’approccio anche sul corpo maschile», dice Ciccone.
I giovani hanno poi contribuito a introdurre un linguaggio e riferimenti teorici nuovi, come quello della comunità Lgbtq, dell’intersezionalità – l’interazione tra diverse forme di oppressione, legate al genere, alla razza, alla classe – e del non binarismo, non accettare la rigida separazione dei generi maschile e femminile.
La violenza di genere
Portando avanti progetti culturali nelle scuole e lavori con la cittadinanza, il Cerchio degli Uomini ha incontrato la difficoltà di interrogarsi sul tema della violenza maschile sulle donne, «era importante capire quello che noi producevamo e non solamente stare ad ascoltare quello che le donne subivano», continua Domenico Matarozzo. È fondamentale parlare di femminicidi, ma, secondo l’associazione di Torino, occorre anche «lavorare sulla prevenzione e quindi sulle prevaricazioni quotidiane, sulla violenza psicologica, su quello che sta sotto la punta dell’iceberg».
«Quando accade qualcosa, la frase più giusta da dire è “sarei potuto essere io”», sottolinea Francone del gruppo di Torino, perché «il maltrattante non è così distante da quello che è il mio mondo, non solo perché sono maschio».
Il femminicidio è l’apice di una spirale che è fatta di catcalling – molestie che le donne ricevono per strada, soprattutto verbali – violenza psicologica, economica, stalking, possesso, lesioni o minacce, spesso non semplici da intercettare e insiti nei modelli culturali imposti, basati su dominio e potere. Strutture messe in dubbio dagli uomini che partecipano a questi gruppi: «Per quanto uomini consapevoli, dobbiamo mettere in discussione il nostro ruolo e quello che noi stessi riproduciamo», precisa Michele di Maschile Plurale Bologna.
L’attenzione mediatica
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin c’è stato un cambio radicale nella narrazione pubblica della violenza di genere, anche per la posizione presa dalla famiglia, che ha trasformato un dolore privato in rabbia collettiva, mettendo in luce la responsabilità di tutti gli uomini e le mancate tutele da parte delle istituzioni.
«Nelle ultime settimane ci hanno contattato diverse persone interessate a entrare nel gruppo», dice Scorzini, riferendosi al territorio di Roma. Un’attenzione che è emersa anche a Bologna e Torino. Nel capoluogo emiliano, dal femminicidio di Cecchettin, «hanno iniziato ad arrivare persone che chiedono “io cosa posso fare?”. Casi in cui ne hanno parlato nella coppia e sono stati invitati dalle compagne ad avvicinarsi ai gruppi di autocoscienza», spiega Michele, che ha notato in generale un forte aumento delle richieste nel 2023.
Oltre alle richieste ai gruppi già esistenti, sono nati diversi piccoli gruppi di autocoscienza informali, legati a realtà sociali. L’attenzione mediatica però non sempre rende la complessità del fenomeno. Per Matarozzo da un lato aiuta a parlarne, portando più uomini a farsi domande e a mettersi in discussione.
Ma raccontare il fenomeno concentrandosi esclusivamente sulla punta dell’iceberg «mette l’accento solo su un tipo di violenza, senza colpire la radice del problema: tutti quei messaggi di prevaricazione quotidiani che non si vedono ma che creano un sistema di potere», in quasi tutte le relazioni.
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